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Notizie e narrazioni

Intervista a Nicoletta Suter

La medicina narrativa come postura – Intervista a Nicoletta Suter

A cura di Francesca Memini
Tra le realtà che mettono in pratica la Medicina Narrativa in Italia, il CRO (Centro di Riferimento Oncologico) di Aviano è sicuramente una delle più dinamiche:  workshop e formazione per gli operatori, concorsi letterari e convegni sono tra le attività pianificate ogni anno. Tra i promotori della Medicina Narrativa e delle Medical Humanities al CRO, una figura di riferimento è Nicoletta Suter, responsabile del Centro Attività Formative: le abbiamo chiesto di raccontarsi e di raccontarci il suo punto di vista sulla Medicina Narrativa.

Come è avvenuto il tuo incontro con la medicina narrativa?


Ho iniziato a occuparmi di formazione nell’ambito della comunicazione e della relazione d’aiuto a metà degli anni ottanta. Per rinforzare la mia competenza ho anche frequentato un master in counselling durante il quale ho incontrato la scrittura e il metodo autobiografico. Tuttavia continuavo a sentire la mancanza di qualcosa, non si trattava di una tecnica o di uno strumento. Quel qualcosa l’ho trovato nella narrazione.  Al CRO da tempo avevamo iniziato a raccogliere le storie dei pazienti e dei familiari, che nel nostro Istituto possono scrivere nei cosiddetti “diari di bordo” o libroni distribuiti un po’ ovunque, negli atri, nelle sale di attesa e nei reparti. Viene infatti da noi dato largo spazio per riflessioni personali e in genere per la narrazione autobiografica. Pian piano emergeva in me la domanda su cosa si potesse fare con le storie di malattia.
È così che ho iniziato a leggere e studiare la letteratura scientifica inerente le narrazioni e ben presto ho deciso di andare alla fonte della Medicina Narrativa: ho scritto una mail alla Prof.ssa  Rita Charon della Columbia University e da lì è iniziata la mia avventura. Lei mi ha invitata a New York per uno stage durante il quale l’ho accompagnata nella sua attività, facendo esperienza concreta di medicina narrativa nelle aule di formazione con studenti e professionisti. Nel 2012 ho seguito il corso base alla Columbia, a cui sono seguiti altri workshop negli anni: questa esperienza mi ha dato l’imprinting di disciplina, rigore e metodo di cui sentivo la mancanza per poter utilizzare le narrazioni nella relazione di cura e nella formazione. 
È stato grazie al supporto di Carly Slater, un'allieva di Rita Charon ospite al CRO per vari mesi, che nel 2013 abbiamo avviato i primi workshop di medicina narrativa, che da allora non abbiamo mai interrotto. In parallelo ho sviluppato una attività di studio e di ricerca personale, che dura tutt’ora, per individuare i testi narrativi (letteratura, ma anche film e arti visuali) da utilizzare nel mio contesto di riferimento, cioè l’educazione degli adulti. 
Cercare i testi appropriati mi aiuta ad allenare con costanza le mie competenze narrative.


Che cos’è la Medicina Narrativa, secondo te?


La Medicina Narrativa è una postura, un modo di essere e di porsi all’interno della relazione di cura, sanitaria ed educativa. Secondo lo psicoterapeuta cileno Claudio Naranjo, nella relazione di cura senza le posture e gli atteggiamenti appropriati dell’operatore, metodi e strumenti rischiano di essere da soli inefficaci. La stessa cosa vale per l’empatia: si possono imparare le tecniche dell’ascolto e della riformulazione, ma se il curante non è realmente presente nel qui ed ora, attento all'altro e in contatto con l’assistito, l’empatia non si realizza davvero.
La Medicina Narrativa diviene una postura quando attraverso l’attenzione e l’ascolto conduce a cogliere la “sostanza” di una storia, il suo significato e valore. Questa postura non può essere appresa una volta per tutte, ma deve essere costantemente allenata, in quanto è necessario avviare circoli virtuosi di azione e di riflessione sull’esperienza.
Questo è ciò che si fa nei workshop di formazione attraverso l’applicazione del metodo della Medicina Narrativa. Ecco un esempio: prima avviene la lettura attenta e/o osservazione di un testo narrativo (close reading), poi la scrittura su input del formatore (reflective writing) e a seguire la lettura in coppie/terzetti e/o in plenaria delle scritture riflessive prodotte. Grazie a questo lavoro è possibile percepire un cambiamento sensibile e progressivo nel clima della classe e nel tempo cambiamenti che le persone riportano, nelle loro relazioni professionali (con pazienti, caregivers, colleghi ecc.) e affettive. L’utilizzo delle narrazioni in formazione ha più obiettivi: allenare lo sguardo narrativo e l’ascolto del vissuto del malato ed anche far entrare in contatto con i significati profondi della vita, soprattutto quando accadono malattie, traumi, sofferenze. La medicina narrativa aiuta anche i curanti a ritrovare il senso del lavoro di cura, che rischia di rimanere sommerso e frustrato dalla burocrazia, dall’efficientismo, dai tagli di budget, ecc… 

A chi si rivolge la Medicina Narrativa? 

Le narrazioni servono per restituire senso all’esperienza e questo vale tanto per i pazienti quanto per gli operatori sanitari. In effetti il focus è la relazione fra tutti gli attori del processo di cura.  Quando la Medicina Narrativa si apre solo alla voce del paziente, rischia di non dare valore a quella degli operatori, quindi anche alla fatica e sofferenza del lavoro di cura.  Di recente alcune ricerche hanno messo in luce che gli studenti di medicina vanno incontro a un calo drastico dell’empatia già a partire dal terzo/quarto anno di studi (NDA qui una revisione sistematica della letteratura); a ciò si aggiunge il noto rischio di burnout, in tutti i diversi possibili gradi, che minaccia i professionisti della cura, quando non in possesso delle strategie e degli strumenti di cura di sé per far fronte alla complessità del mondo della sofferenza. Nonostante ciò, nelle università il curriculum di studi delle professioni sanitarie è molto sbilanciato sul versante della conoscenza tecnico-specialistica mentre si continua a sottovalutare la formazione della competenza relazionale e narrativa così come la dimensione della cura di sé e questo può avere conseguenze negative importanti sui futuri curanti.

Parliamo quindi della formazione. Come deve avvenire a tuo parere la formazione in Medicina Narrativa nelle università?

Come dicevo prima, le competenze narrative richiedono allenamento affinché diventino una postura, un modo di essere e di stare nella relazione di aiuto e professionale. Un singolo modulo didattico o un corso di Medicina Narrativa all’interno del percorso di studi universitario dei medici o degli infermieri non è secondo me sufficiente. Può essere utile per piantare dei semi che però non potranno germogliare se non verranno costantemente annaffiati. Per di più in un ambiente come quello dell’università, ostile a tutto ciò che sembra non essere evidence based e in cui ancora diffusamente prevalgono modelli riduzionistici di approccio alla malattia e alla persona. Qui il modello pedagogico è ancora incentrato sull’apprendimento di nozioni e tecniche, gli aspetti relazionali e valoriali passano in secondo piano.
La Medicina Narrativa dovrebbe essere trasversale al percorso di studi: nelle facoltà di medicina, perfino il professore di anatomia patologica può usare le narrazioni, per ricordare ai suoi studenti che quel corpo nella sala autoptica appartiene ad una persona con una sua storia e non è un mero oggetto/strumento di studio.
E poi andrebbero potenziate le competenze relazionali e sociali, quelle “life skills” o competenze di vita che in Italia sono approdate abbastanza nei percorsi formativi delle scuole dell’obbligo, ma che ancora restano escluse dalle aule universitarie. Le competenze narrative funzionerebbero meglio se in sinergia con queste competenze relazionali, perché le due si potenziano a vicenda.

Qual è il futuro della Medicina Narrativa in Italia? Quali sono i prossimi passi per permettere che il paradigma si affermi concretamente?

La cosa fondamentale in questo momento in cui in Italia la Medicina Narrativa, almeno apparentemente, sta riscuotendo successo, è il coinvolgimento dei medici. Paradossalmente tra gli operatori sanitari i medici, che operano a stretto contatto con la vita e la storia delle persone, sono quelli meno partecipi di questo cambiamento, soprattutto i più giovani, molto attratti dalle conquiste della tecnica.
La formazione degli operatori però non può essere l’unica via per promuovere una medicina più umana, perché se non cambiano anche le organizzazioni la formazione rischia di indurre ancora più frustrazione nei professionisti. Occorre lavorare perché le organizzazioni legittimino la pratica della Medicina Narrativa, una pratica che – inutile negarlo – richiede tempo. Bisogna pertanto legittimare il tempo della relazione come tempo di cura.
Nel mio lavoro questa è una battaglia quotidiana: a volte è necessario anche alzare la voce e ancor più è necessario fornire agli operatori sanitari la preparazione e la motivazione perché a loro volta possano alzare la voce e rivendicare un tempo per la riflessione, la creatività e l’immaginazione così necessari alla pratica della buona medicina.
L’empowerment del paziente è diventata a livello politico una parola chiave, ma senza l’empowerment degli operatori sanitari non possiamo migliorare la qualità della cura. In poche parole occorre “prendersi cura di chi cura”.
Progettare la formazione per raggiungere tutti questi obiettivi, è un compito difficile ed impegnativo e non può essere fatto a tavolino. E’ molto importante coinvolgere i destinatari della formazione fin dal momento della progettazione di un percorso per umanizzare i luoghi di cura.
Voglio a questo riguardo fornire un esempio. Di recente La Direzione Centrale Salute della dalla Regione Friuli Venezia Giulia mi ha chiesto di proporre un progetto formativo sulla dignità della cura per gli operatori sanitari della nostra regione. Ho deciso di progettare la formazione con un approccio buttom up, coinvolgendo figure professionali diverse, pazienti e caregivers,  valorizzando quell’immenso patrimonio che è l’esperienza degli adulti. Abbiamo dapprima  lavorato sul tema della violazione della dignità, attraverso la scrittura e analisi di storie portate dai partecipanti. In seguito attraverso un brainstorming abbiamo raccolto i fabbisogni formativi e le indicazioni per la costruzione del percorso formativo (contenuti e metodi) da realizzare nei vari ambiti del Sistema Sanitario regionale nel 2018.  
La formazione degli operatori svolta con queste modalità diviene un processo di facilitazione che libera energie ed idee, che permette ai partecipanti di vivere  un’esperienza attraverso il lavoro sulle narrazioni e contribuisce all’emersione degli snodi critici e delle soluzioni ai problemi individuati.

Quali sono le attività promosse dal CRO?

Ogni anno pianifichiamo numerose attività dedicate alla Medicina Narrativa: innanzitutto il tradizionale convegno (sei edizioni già realizzate) che nel tempo si è sempre più trasformato da conferenza in plenaria a proposte di laboratori, con riduzione al minimo delle lezioni frontali. Laboratori condotti da formatori esperti che utilizzano la letteratura (prosa, poesia, fiabe), la filosofia, il teatro, la cinematografia, il metodo autobiografico per esplorare il tema del convegno.  Il piano annuale della formazione prevede inoltre o svolgimento di numerosi workshop narrativo-esperenziali, che in genere si sviluppano attorno a temi che definirei snodi critici della cura quali la speranza, la comunicazione, la dignità, la sicurezza del paziente, i linguaggi ecc. 
Parallelamente alla formazione stiamo sviluppando attività di ricerca qualitativa sia per valutare gli impatti in termini di apprendimenti sia per cogliere spunti per l’empowerment organizzativo dall’analisi delle narrazioni che in questi anni abbiamo raccolto.

Qual è il ruolo dell’infermiere nel processo di cura?

L’infermiere e l’operatore socio sanitario sono le figure più vicine al paziente oncologico e quelle che lo accompagneranno nella cronicità della patologia per tutta la vita. Il caring è il modello di riferimento dell’infermieristica: esso è in linea con il paradigma della Medicina Narrativa, in quanto ambedue si fondano su un approccio in cui olismo, teoria della complessità, visione sistemica sono parole chiave. Ma il lavoro di cura espone a lungo gli operatori al contatto con la sofferenza e la morte  e questo può portare ad un esaurimento delle risorse emotive e dell’energia motivazionale, quando non si hanno gli strumenti per fronteggiare la situazione. Per dare un  esempio, un infermiere alcuni giorni fa, parlandomi della relazione con i pazienti oncologici, mi ha detto: “Io non so cosa mi stia accadendo, ma quando li vedo arrivare con certe diagnosi, mi prefiguro il loro percorso difficile senza speranza. E pian piano non riesco nemmeno più a incrociare il loro sguardo …” Non so se questa persona sia già in burnout, so però che svolge un lavoro impegnativo e logorante e necessita a sua volta che qualcuno riconosca la sua sofferenza di “guaritore ferito”. Se l’impegno umano che la professione di infermiere comporta non è riconosciuto, alla sofferenza si aggiungono  la frustrazione e la rabbia. La formazione con metodo narrativo può creare uno spazio di pensiero in cui gli operatori raccontano, scrivono, dialogano, si confrontano, riflettono, rielaborano e così possono attribuire/riattribuire significato al lavoro di cura.

Le metafore di guerra sono estremamente diffuse quando si parla di tumori. Nella vostra esperienza con le narrazioni dei pazienti, quali sono le parole che aiutano la cura del paziente oncologico?

Non solo le parole dei pazienti, ma anche la letteratura scientifica è imbevuta di gergo militare. E devo dire che non è sempre un fatto negativo se il paziente si esprime con un linguaggio “battagliero”: per alcune persone può essere un modo per affrontare con determinazione il duro percorso terapeutico. Vale sempre la regola del percepito e della mappa soggettiva di riferimento.
Tuttavia l’utilizzo improprio del “linguaggio della guerra” può far emergere dei problemi: chi considera la malattia come un nemico da combattere, poi deve fare i conti anche con il fatto che la malattia è parte di sé ed è come avere il nemico  dentro.  Questo tipo di pensieri potrebbe essere dannoso e far emergere sensi di colpa, di ingiustizia, di frustrazione. Altre persone invece riescono ad accettare che le malattie accadono e che sono parte della vita, il punto di forza è trovare le risorse per “stare” nella malattia e nel percorso di cura.  Dalle analisi delle narrazioni di pazienti,  caregiver,  operatori che abbiamo raccolto in questi anni e a cui stiamo lavorando con un progetto di ricerca, emergono anche immagini diverse da quelle del mondo militare, per esempio l’immagine del tumore come compagno di viaggio.  Per chi si occupa della cura delle persone affette da tumore, è necessario capire che le parole hanno un peso e che devono essere usate responsabilmente (così come i gesti e il silenzio). Ecco allora che nuovamente viene in aiuto la formazione narrativa, che allena ad utilizzare responsabilmente i vari linguaggi e ci insegna che per curare meglio, servono parole più sagge.

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