Si intitola "Ancora vivi" il libro che raccoglie le testimonianze dei "sopravvissuti", persone che si sono confrontate con l’esperienza del suicidio da differenti punti di vista, in relazione al ruolo e al legame che avevano con chi si è tolto la vita (parenti, amici, medici, conoscenti). A partire da uno stimolo narrativo - alcuni haiku di Kobayashi Yōtarō, poeta vissuto fra il 1763 e il 1827 segnato dall'esperienza del dolore e della morte - i sopravvissuti sono stati invitati a narrarsi: l’esito è un mosaico di testimonianze eterogenee, che riproducono vissuti altrettanto diversificati rispetto all’esperienza di suicidio e che diventano patrimonio di riflessione comune.
Il libro, con prefazione di Maurizio Pompili, Direttore del Centro Prevenzione del Suicidio, Ospedale Sant’Andrea e Presidente della Struttura Integrata di Suicidologia della Società Italiana di Psichiatria, e introduzione di Roberto Merli, che coordina il Centro Crisi per la Prevenzione del Suicidio della Struttura Complessa di Psichiatria di Biella, è nato dalla collaborazione fra ASL Biella, Anteo coop. soc. onlus e l’Associazione Barriere per la Vita.
Ne abbiamo parlato con Roberta Invernizzi, curatrice insieme a Elena Macchiarulo, del volume.
Come è nato questo libro?
Frequento il tema del suicidio da anni, non solo per interesse intellettuale (molte le letture, coinvolgenti e struggenti, alle quali mi sono dedicata), ma anche per coinvolgimento esperienziale. Sono stata volontaria di Telefono Amico, un servizio storicamente nato proprio come supporto ai potenziali suicidi; leggo ad alta voce come volontaria presso il reparto SPDC dell’Ospedale di Biella, in cui spesso sono ricoverate persone che hanno compiuto gesti autolesivi; mi reco presso la Casa Circondariale di Vercelli, sempre come volontaria, e quello (si sa, anche se se ne parla poco) è un ambiente in cui purtroppo la sofferenza tocca spesso apici pericolosi e strazianti. E l’atto suicidario mi ha lambita anche in prima persona. Quando due professionisti che considero innanzitutto amici, vale a dire il Dott. Merli e la Dott.ssa Macchiarulo, mi hanno manifestato il desiderio e l’esigenza di realizzare qualcosa di tangibile e duraturo per sensibilizzare sul tema, non potevo far mancare il mio impegno.
Qual è l’obiettivo che vi siete proposti?
La raccolta di testimonianze contenute in Ancora vivi, “incorniciata” e accompagnata da commenti e riflessioni, rappresenta, nei nostri intendimenti, un messaggio forte, nella sua verità: il suicidio ci riguarda. Non si tratta di un fenomeno “estremo”, lontano, “mostruoso”: è una realtà vicina, con la quale ci dobbiamo confrontare frequentemente, che trafigge il tessuto sociale di cui facciamo parte. È importante sviluppare una capacità di ascolto e accoglienza adeguata, per far sì che chi rimane dopo un suicidio non si senta giudicato, isolato, abbandonato.
Il suicidio non è un tema strettamente correlato alla medicina narrativa, non si tratta di “storie di malattia” in senso stretto. Come mai avete deciso di utilizzarne gli strumenti della medicina narrativa?
Ogni suicidio spande attorno a sé un dolore immenso: è un evento tragico e rivoluzionario, che ridisegna mondi. Come la malattia. Peraltro, spesso scaturisce da un disagio psichico, diagnosticato o no, curato o no. E gli stessi “sopravvissuti” spesso hanno l’esigenza e la forza di chiedere aiuto a professionisti della cura, come psichiatri o psicologi. I territori fra suicidio e malattia sembrano in qualche maniera e in qualche misura limitrofi. E non ci è parso irrispettoso utilizzare strumenti e metodi propri della medicina narrativa per proporre una produzione narrativa ai sopravvissuti: la funzione trasformativa del raccontare attraversa dimensioni ampie e diversificate, portando effetti benefici, a volte chiarificatori, a volte sorprendenti…