La fotografia può diventare uno strumento per migliorare la relazione di cura? E' quello che è successo con il progetto "La vita prima" di Emiliano Cribari. Nato come reportage fotografico per documentare la vita all'interno di una RSA fiorentina, il progetto è poi diventato una mostra (che è stata allestita a Firenze nell’ex carcere de Le Murate nel febbraio scorso) e contemporaneamente è servito da stimolo per una serie di laboratori formativi dedicati a infermieri, operatori sanitari e dirigenti di strutture socio-sanitarie.
Ne abbiamo parlato con il fotografo Emiliano Cribari, e con Alessandra Schiavoni, psicologa e psicoterapeuta e Cristina Fassio, coordinatrice infermieristica, che si sono occupate dei laboratori.
Emiliano, cosa significa il titolo del progetto?
C'è una vita prima e una vita dopo l'autosufficienza. Queste persone sopportano i giorni ricordando frammenti della loro vita prima. Scopo del reportage era quello di indagare i bisogni di questi ospiti, trascorrendo più tempo possibile con loro e dando vita a una sorta di ricerca sulla solitudine, sulla tenerezza. Mi si è inaspettatamente spalancato un mondo, popolato perlopiù di dettagli, di sguardi che sono tristemente tornati bambini. Le fotografie sono state realizzate all'interno di una struttura sana, qualificata, nella quale lavora personale preparato e dotato di un'etica forte e radicata. Qui i pazienti vengono trattati nel migliore dei modi, sia dal punto di vista medico che dal punto di vista umano. Ciò nonostante anche qui come altrove trionfa la solitudine. Come a dire che anche quando il sistema funziona, il sistema in realtà non funziona.
La fotografia come operatore di cambiamento?
Dopo il reportage ci siamo chiesti: e se domani ogni infermiere, ogni operatore sanitario, ogni dirigente di struttura, ogni politico chiamato a operare su questi temi, tornasse al lavoro con qualcosa in più? Con qualcosa di operativo, di solido, di duraturo. Ecco perché è stata prontamente chiamata in causa la figura della dottoressa Alessandra Schiavoni, che partendo dalle immagini esposte a Le Murate ha condotto due diversi laboratori per infermieri e operatori sanitari.
Dottoressa Schiavoni, quali sono stati i temi dei workshop?
Il primo workshop, ha avuto come tema la comunicazione non verbale, quindi il corpo che ci parla, comunica ed esprime emozioni e bisogni. Il secondo, invece, ha trattato il tema scottante e, purtroppo, sempre attuale degli abusi in RSA.
Gli obiettivi sono stati diversi: in primis, avvicinare gli infermieri all’espressione delle emozioni attraverso una modalità non verbale, porre l’attenzione a quei segnali che non sempre sono espliciti ma che invece comunicano interi mondi.
Inoltre, abbiamo chiesto agli infermieri di riflettere sui loro bisogni sia professionali che personali all’interno del luogo di lavoro, bisogni che spesso si fondono e si sovrappongono a quelli dei loro assistiti.
Infine, l’obiettivo è stato anche quello di sensibilizzarli al tema dell’abuso,insegnando loro a leggere i segnali del corpo, perché l’infermieristica nasce dal gesto di carezzare il malato per confortarlo e rassicurarlo, perché da questo gesto, dalla carezza nasce la relazione d’aiuto.
In che modo avete utilizzato le fotografie nei workshop?
Siamo partiti proprio dalle immagini della mostra di Emiliano Cribari per raccontare delle storie, per far riflettere su quanto uno sguardo, un tocco siano in grado di comunicare, oltre le parole.
Li abbiamo spinti a riflettere su quanto un tocco, una carezza può diventare violenza, quanto dalla cura si può passare velocemente all’abuso, perché la violenza non è solo quella che lascia i lividi sulla pelle ma è anche atteggiamento, comportamento verbale e non verbale. Di nuovo, un’immagine, uno sguardo che comunicano un mondo, nel caso dell’abuso, un mondo fatto di sofferenze che le parole faticano a narrare.
Ci siamo soffermati molto sull’importanza, nella pratica infermieristica, della relazione anche, e soprattutto, attraverso le relazioni raccontate nelle fotografie di Emiliano: gli infermieri non comparivano nei suoi scatti, ma la loro presenza “dietro le quinte” era palpabile, la relazione era presente anche se non esplicita.
Abbiamo voluto dare importanza alla conoscenza del proprio e dell’altrui corpo, del proprio sguardo e di quello dell’Altro, le emozioni e le intenzioni che questi comunicano in modo da poter narrare storie anche senza parole.
Per fare questo, oltre alla classica modalità della lezione frontale, abbiamo scelto di utilizzare una modalità esperienziale: abbiamo chiesto agli infermieri, letteralmente, di mettersi in gioco.
In che modo si sono "messi in gioco" i partecipanti al workshop?
Durante il primo workshop abbiamo creato dei collage sul tema dei bisogni: abbiamo utilizzato sia le immagini della mostra che ritagli di giornale e li abbiamo tenuti esposti nell’aula per tutto il tempo della mostra.
Una sorta di “mostra nella mostra”, un modo per chi ha partecipato, di continuare a riflettere attraverso immagini scelte dai gruppi di lavoro, immagini che narravano i bisogni degli infermieri ma anche dei loro assistiti.
Durante il secondo workshop, li abbiamo fatti “giocare”, attraverso un role playing, con una delle loro routine lavorative: l’alimentazione e l’igiene del viso dell’assistito. Abbiamo scelto di suddividere questa routine in due parti distinte e contrastanti: una delicata e “corretta”, l’altra più violenta e frettolosa.
Pur nel divertimento di questo momento, però, si è reso evidente come un atteggiamento semplicemente frettoloso è stato percepito come “violento” da chi ha interpretato l’assistito.
Qual è la lezione che è emersa da questa esperienza?
I nostri infermieri hanno potuto sperimentare sulla loro pelle cosa succede quando il nostro modo di toccare l’altro cambia.
Questo percorso si è concluso lasciandoci l’idea che le RSA non devono essere luoghi di morte ma luoghi di vita, una vita narrata nei piccoli gesti quotidiani di infermieri e ospiti, con l’idea che diventiamo testimoni e custodi di una storia che si svolge all’interno di quelle mura, ma che non per questo deve restare nascosta
Cristina Fassio, durante workshop avete lavorato sul tema delicato della violenza. Come è nata questa esigenza e come l'avete affrntata?
Il pensiero che ha preso forma dalla visione e dalla lettura attenta delle immagini scattate è stato quello di fare un lavoro sulla definizione di violenza, e dalle definizioni ricercate e condivise, far partire spunti di riflessioni e programmare all’interno della RSA una serie di incontri di formazione, dedicati al miglioramento della qualità dell’assistenza erogata, dove assistenza non è solo tecnicismo, bensì ascolto e relazione.
Le definizioni da cui siamo partiti sono:
“La violenza è una mancanza di vocabolario” (Gilles Vigneaut)
“La violenza è semplice, le alternative alla violenza sono complesse” (Friedrich Hacker)
“Non violenza significa anche cose semplici ed essenziali come il rispetto degli altri” (Pietro Ingrao).
In questi incontri formativi con l’utilizzo delle immagini scattate ci siamo basati su 3 aspetti:
1) Utilizzare le immagini per capire i limiti assistenziali della nostra struttura e poter lavorare al miglioramento
2) Scoprire dai piccoli dettagli delle immagini la vita delle persone che sono da noi ospiti: imparare ad osservare maggiormente ciò che circonda la persona assistita, per poter conoscere meglio e per poter di conseguenza assistere e supportare meglio
3) Fermarsi e pensare: cosa potrò fare meglio domani?
Cristina, qual è stata la risposta dei partecipanti al percorso formativo?
Posso riportare alcune testimonianze di operatori, testimonianze che hanno determinato una presa di coscienza ad un cambiamento positivo nel quotidiano lavorativo delle persone.
“Mi prendo più tempo per soffermarmi sui dettagli spesso trascurati ma importanti per la quotidianità dei nostri ospiti, riuscendo così ad entrare meglio in relazione con loro”
“… ho visto gli ospiti e gli ambienti con occhi diversi. Non da infermiere ma da persona qualunque, da parente, da amico, e o notato che tanti dettagli visti con un punto di vista esterno possono dare emozioni forti. Oggi sto più attenta a come si lasciano le stanze e cerco di lasciare gli ospiti meno in solitudine possibile, stimolando la conversazione anche tra di loro”
“Per me è cambiato il modo di osservare i nostri ospiti, il loro sguardo, la loro espressione durante la giornata. Mi soffermo molto di più ad osservarli anche quando non se ne accorgono. È aumentata l’attenzione ai dettagli delle loro camere. Per molti i loro oggetti sono la loro storia presente e passata”
“Uso maggior delicatezza nei gesti e nelle parole con cui entro in contatto con loro”