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La costruzione sociale della malattia

La costruzione sociale della malattia

A cura di Sebastiano Castellano
La malattia è anche un costrutto sociale. Quando incontra le altre vite la malattia induce accoglienza e sostegno se il problema del sofferente è condiviso come problema di tutti. A volte però la comunità si chiude in se stessa e non accoglie, ma aggiunge una marca di esclusione che dà nuova sofferenza a chi dalla sofferenza è già segnato.
il racconto di Buzzati 1  mette in scena la corruzione dei rapporti quando le istituzioni non sanno conciliare la protezione di tutti con il rispetto e la cura di un singolo sofferente. 

Un mercante
Il mercante Cristoforo Schroder capita nel paese di Sisto due o tre volte all'anno per il commercio del legname. Si ferma sempre nella stessa locanda. Una sera, arrivato in paese, si ritira subito in camera perché non sta bene e fa chiamare il medico. Il medico dopo la visita dice che non c’è motivo di preoccuparsi, si fa dare un botticino di orina2  e promette di tornare il giorno dopo. Tranquillizzato, Cristoforo Schroder passa una notte di sonno e il mattino dopo si sente bene. Sta pensando di avvertire dell’inutilità di una seconda visita, quando il dottore bussa alla porta. 

Il medico e l’alcalde 
Il dottor Lugosi, da vent’anni medico a Sisto, conosce da tempo Gregorio Schroder. Dopo la visita aveva avuto qualche perplessità ma non aveva prescritto rimedi, né lasciato intendere un iniziale sospetto. 
Non è chiaro quali segni e sintomi, rilevati nella visita, e quali dati, ricavati dall'analisi dell’orina, il dottor Lugosi abbia messo in correlazione con la patologia che determina le sue decisioni. Nel disturbo passeggero del mercante ha scorto una minaccia e l’ordinario evolvere della relazione duale tra terapeuta e malato si è inceppato. Ha prontamente avvertito l’alcalde dei possibili danni per l’intera popolazione del paese. Forse, come accaduto in casi simili, un sovvertimento dell’ordine sociale.
Il mattino dopo torna per un controllo. Il mercante è in piedi, pronto a iniziare la giornata di lavoro. Dice subito di stare bene e di non avere più bisogno di lui. Il medico non gli bada. 
Il dottor Lugosi, come ogni collega suo contemporaneo, non sa curare la malattia che pensa di aver individuato e non conosce farmaci per proteggere la comunità. Occupato nei provvedimenti conseguenti alla norma di allontare questi malati rompe il patto implicito nella risposta alla chiamata del mercante e avvia una sequela di bugie e di scorrettezze che progressivamente sottraggono al malato ogni tutela e diritto. 
Falsa è l’esibita sollecitudine di curante. Mente affermando che lo sconosciuto, che invita a entrare nella camera del malato senza chiedere l’autorizzazione, è un amico che deve accompagnarlo in un’altra visita. 
La sera precedente non aveva espresso il sospetto diagnostico che aveva intuito. È stato prudente, evitando un prematuro, forse infondato, allarme. Quando è stato certo della diagnosi3,  ha avvertito l’autorità civica, assolvendo il dovere di proteggere la città. Ha però presto accantonato il persistente dovere nei confronti del malato che si è rivolto a lui per consiglio e per cura e ancora crede di ricevere nient’altro che bene. 
Ha cominciato a mentire proprio quando la fragilità di Schroder imponeva una comunicazione franca e accurata. Ha dimenticato il dovere originario del medico che impone innanzitutto di non fare del male a chi già sta male. 
A quanto pare non c’è bisogno di visita, dice, tutto bene l’esame delle orine. Immediatamente dopo si contraddice e propone di eseguire un salasso.
Un salasso? E perché un salasso?  
Vi farà bene. Fa sempre bene ai temperamenti sanguigni. 
Risposta grossolana e nuovo segno di corruzione del linguaggio.  Il mercante non ha argomenti per obiettare. Il salasso è l’unico intervento sanitario del dottor Lugosi. Unico, superfluo e ingannevole. Inganna il malato e tradisce il rapporto di fiducia. Non serve ai fini della cura. Nemmeno attiene al provvedimento profilattico comunitario, movente dell’agire del medico. 
Il dottor Lugosi, che si è tenuto a una certa distanza, con una nuova banale giustificazione fa in modo che sia lo stesso malato ad applicare le sanguisughe. Dopo questa scorrettezza il suo compito sembra finito perché durante il salasso progressivamente è l’intruso don Valerio a governare la situazione. 
Don Valerio Melito, da una certa distanza anche lui, ricorda di aver assistito, tre mesi prima, a un piccolo incidente occorso a Schroder nelle vicinanze del paese. A causa del fango una ruota della carrozzella era finita fuori strada.
Il racconto, iniziato in apparenza tanto per passare il tempo, diventa sempre più insinuante. 
Sa, il mercante, chi era l’uomo sbucato dal bosco che lo aiutò a cavarsi d’impiccio? 
Era un poveraccio, uno zingaro. Forse un sordomuto. Quando cercava di par-lare emetteva incomprensibili mugolii.
Non era un sordomuto. Era basso, scuro in viso, suonava di continuo una campanella. Diverse volte mercante e sconosciuto erano venuti in contatto, mentre insieme cercavano di riportare in strada la carrozzella. Il discorso va per le lunghe; il tono falsamente cortese, sgradevolmente compiaciuto, lascia intravvedere l’incombere di una minaccia. 
Quell’uomo era un lebbroso, dice don Valerio, che è l’alcalde di Sisto. 
Ora siete un lebbroso anche voi 4  , dice il medico, mentre l’alcalde fa spuntare la canna di una pistola dal mantello. 
Cristoforo Schroder, dice il medico, è un lebbroso, non un uomo malato di lebbra.

Il colpevole
Come il medico l’alcalde ha la responsabilità di proteggere la comunità e deve riconoscere i casi in cui è necessario adottare provvedimenti che limitano la libertà personale. Compreso in un assetto normativo che lo legittima l’alcalde di Sisto accentua la violenza intrinseca di ogni decisione che riguarda la sorte di un uomo. Aggiunge altro male. Ambrogio Schroder non ha commesso crimini. La sua colpa viene da un’impurità di cui non è colpevole. L’alcalde gli indirizza la stessa azione violenta impiegata verso i crimini contro la proprietà o contro la vita. Comunica i provvedimenti alzando il tono della voce. Dà del tu, insulta, inveisce. Attiva un dispositivo di punizione e di rigetto con una ferocia proporzionata meno al livello della minaccia che allo sforzo necessario per contenere la paura e l’orrore davanti a una sofferenza che lui e il medico vogliono allontanare dal paese e da sé.
Nessuna presa in carico, nessuna accoglienza da parte dell’autorità civile e sanitaria. L’alcalde sottrae al mercante ogni possesso. Lascia solo gli abiti che indossa e il mantello. Appende al collo una campanella, per identificazione e per segnale.
Il medico sembra aver esaurito il suo compito di curante fin dalla sera prima, quando ha notificato autorità la diagnosi. Sbalordito dalla scena ripugnante, testimone impotente e colpevole dell’insensato zelo amministrativo a cui ha dato doverosamente avvio. La sua presenza è stata fin dall'inizio strumentale alla risposta immediata dell’autorità civile, senza considerare la cura del malato. Non ha dato nemmeno un consiglio. Avuto il sospetto e poi la certezza ha pensato a predisporre azioni di controllo e ha dimenticato il malato. 
Più che la malattia e prima della malattia, è la cattiveria inutile a devastare la vita del mercante Schroder. Quando ne chiede ragione fissando il dottor Lugosi con un lungo sguardo, il medico balbetta La colpa non è mia! È stata una disgrazia, una grande disgrazia! 
Rapida e più reale del temuto contagio, un’epidemia di delirante paura travolge il paese. Gli abitanti bruciano la carrozzella del mercante e uccidono il cavallo 5.  Lo privano dei bagagli, degli strumenti di lavoro, di tutto quanto lo de-finisce come persona e lo cacciano come un malfattore 6.  Cristoforo Schroder, mercante, scompare. Un uomo indistinguibile dai malati con la stessa malattia vagherà nella campagna. I passanti sentiranno il suono della campanella e capiranno. Senza sapere chi è, lo guarderanno da lontano con curiosità e disgusto.

Conclusione
La ferocia del linguaggio e dei gesti, facile evoluzione dell’indifferenza, serve, più o meno consapevolmente, a trasformare il malato in un nemico. Si riduce il coinvolgimento personale se di fronte si vede non un soggetto morale ma l’irregolarità da eliminare perché il mondo, il proprio piccolo mondo, non abbia scosse.

Note
1.  Dino Buzzati, Una cosa che comincia per elle, originariamente in I sette messaggeri, Mondadori, 1942.
2.  Fino a metà Ottocento l’esame, esclusivamente qualitativo, dell’orina è stato uno dei cardini dell’esame medico. Si considerava il colore, l’odore, la limpidezza, la fluidità, l’eventuale sedimento. Poco considerato era invece il volume della diuresi giornaliera. Con il progresso della chimica è stata progressivamente possibile la ricerca e la quantificazione di varie sostanze.
3.   Riporto la singolare semiologia specifica in uso in alcune aree mediterranee durante il medioevo per la diagnosi precoce di lebbra, prima della manifestazione dei più obiettivi disturbi della sensibilità: Les tests cliniques, retrouvés dans les ouvrages médicaux et ecclésiastiques de l’époque, étaient aussi nombreux qu’imaginatifs: les rayons frisants de la lune donnant diverses couleurs à la peau du lépreux alors que l’homme sain reste pâle; si on repande cendres de plomb brûlé sur l’urine d’un lepreux, elles surnagent alors qu’elles devraient couler chez l’homme sain; battu à l’eau de certaines sources, le sangue des mala-des coagule, pas celui des bien-portants.
J.F. Hutin, L’examen clinique à travers l’histoire, Édition Glyphe, Paris 2006, p. 122. 
4. La contagiosità della lebbra è bassa e verosimilmente dovuta a contatti stretti e ripetuti. Il periodo di incubazione si misura in anni, raramente in mesi. Nel caso del mercante Schroder, con un unico contatto appena tre mesi prima, si tratta di una diagnosi precocissima o errata. 
5. I provvedimenti adottati sono propri di patologie epidemiche come la peste. Per la lebbra l’unico provvedimento è sempre consistito nell’isolamento. Da quasi cento anni sono disponibili cure efficaci.
6. Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: immondo, immondo! Sarà immondo fino a che avrà la piaga, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento. Levitico 13, 45-46.

L'autore: Sebastiano Castellano

Sono medico ospedaliero in pensione: ginecologo, poi direttore sanitario. Mi sono sempre interessato all'aspetto etico, metodologico e relazionale delle interazioni di cura. Negli ultimi dieci anni ho fatto parte di un gruppo di medici narratori veronesi. Dai nostri incontri è stato ricavata una raccolta di esperienze: I medici si raccontano, Guerini, Milano 2016. In particolare ho dedicato le mie ricerche agli stimoli di riflessione offerti dalle trame e dai personaggi della letteratura. Sono piemontese, laureato in filosofia e vivo a Verona


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