Le storie di malattia, come le fiabe, cominciano spesso con il distacco dallo spazio domestico per una destinazione incerta. Ci sono prove da affrontare e paure da vincere, sempre sperando di tornare, salvi anche se un po’ cambiati.
I piani più alti
Un lieve movimento febbrile segnala a Giuseppe Corte uno scarto nel flusso della monotonia quotidiana. È necessario provvedere per riportare la vita sul solito binario. Giuseppe Corte ritiene valga la pena compiere un lungo viaggio per ricoverarsi in un ospedale tutto dedicato alla cura di casi come il suo.
Dopo la visita di accettazione è ricoverato al settimo piano. La camera è ben ammobiliata, l’ambiente luminoso, la vista spazia su un bel quartiere della città e l’infermiera è gentile. Tutto è tranquillo, ospitale e rassicurante. La fiduciosa attesa di una sicura attenzione ai suoi bisogni segretamente attiva la misteriosa risposta placebo: la febbre sembra scomparsa.
Dall'infermiera gentile apprende l’idea semplice alla base dell’organizzazione della clinica: i malati sono distribuiti nei vari piani in rapporto alla gravità della malattia e, quindi, alla complessità assistenziale. Il piano più alto, dove si trova Giuseppe Corte, è come la periferia dell’ospedale, in facile continuità con il mondo dei sani. Chi mostra i primi segni di malattia va al sesto piano, mentre al quinto chi non desta preoccupazione ma richiede cure di una certa complessità. Dal quarto in giù i malati sono in condizioni progressivamente più compromesse. Al primo piano si ricoverano i moribondi. Quando muoiono la serranda della finestra si abbassa. Giuseppe Corte guarda giù e vede chiuse quasi tutte le serrande del piano più basso.
La distribuzione per livelli è vantaggiosa dal punto di vista organizzativo. Consente di distribuire medici, infermieri, strumenti e attività in rapporto a specifici bisogni assistenziali e terapeutici. Non considera però la continuità dell’interazione di cura dal momento che i curanti, sempre diversi, non seguono il malato nell’evoluzione della sua patologia. È anche, per il malato, un fattore di identificazione negativa.
Il giorno dopo Giuseppe Corte è chiamato per una seconda, più accurata, visita. A causa del carattere pessimista e della ritornata febbre, teme un giudizio sfavorevole. Soprattutto teme di dover scendere al piano sotto-stante. Invece il medico lo rassicura. C’è un inizio di malattia, ma di modesta importanza, correttamente trattabile al settimo piano.
Giuseppe Corte segue con scrupolo le indicazioni. Come prescritto resta a letto quasi tutto il tempo e prende regolarmente le medicine. Vorrebbe guarire presto, ma la febbre non accenna a scendere.
Dopo dieci giorni senza storia e, sembra, senza contatti con l’esterno, il capo infermiere, in via del tutto amichevole, gli chiede un favore. Avrebbe difficoltà a trasferirsi in un’altra camera? Sarebbe così possibile accogliere in camere vicine una mamma e i suoi due bambini. Giuseppe Corte acconsente senza difficoltà.
L’infermiere conosce l’arte della comunicazione, come dovrebbero tutti gli infermieri e i medici. Però la usa per ingannare, non dicendo in tempo tutto quello che c’è da dire. Ottenuto il suo scopo aggiunge che la nuova sistemazione sarà al piano sottostante. Giuseppe Corte non ritira il consenso, ma sente in cuore un angosciante presagio. L’infermiere lo rassicura. La sistemazione è provvisoria; entro un paio di giorni una camera al settimo piano si renderà libera per lui. Aggiunge che non ci sono altri motivi, assolutamente non ci sono altri motivi.
La camera del sesto piano ha un arredamento quasi altrettanto elegante e la vista sulla città è appena meno ampia. Segnala però una separazione. Al sesto, non c’è dubbio, si è dentro l’ospedale. Giuseppe Corte avverte questa separazione dal mondo. Si sente meno simile agli altri che vivono fuori che a questi altri che sono nelle camere del sesto e degli inferiori piani. Terrorizzato da questo pensiero dice a tutti di essere di passaggio e di aspettare da un giorno all’altro il ritorno alla sistemazione che gli spetta.
I malati ascoltano senza convinzione. Benevolmente ascolta il medico responsabile e conferma che di certo il suo posto è al piano di sopra. La forma della sua malattia è assolutamente leggera, leggerissima. Non sarebbe esagerato dire che non è nemmeno malato. Incerto tra la responsabilità di informare e il timore di inquietare con le parole più di quanto faccia la stessa malattia, azzarda un consiglio in evidente contraddizione con quel che ha appena detto: se resta al sesto riceverà cure più efficaci e la guarigione sarà più vicina. È un accenno alla strategia terapeutica adottata dai sanitari. Troppo vago per coinvolgere Giuseppe Corte convinto che il suo posto sia al settimo piano e che al settimo debba tornare. Il medico non insiste.
Questo medico trova tempo per parlare con il malato, consapevole del dovere della corretta informazione. Preoccupato di suscitare una reazione di chiusura, non pensa a un’iniziale aggiustamento delle credenze di Giuseppe Corte; un piccolo passo verso la verità in attesa di nuove occasioni per continuare il discorso, fare comprendere poco per volta la reale situazione e, nella chiarezza, stabilire un rapporto autentico di fiducia.
Preferisce dire senza dire. Rassicura e mette in dubbio la rassicurazione. La forma morbosa, dice, è iniziale ma si distingue da forme analoghe per una certa maggiore estensione. L’intensità del male è minima ma considerevole l’ampiezza. […] Il potere distruttivo delle cellule è appena all’inizio […] ma tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell’organismo. Con iconica efficacia, l’idea di un disastro cellulare che ostinatamente progredisce conclude il colloquio con il medico e si fissa nella mente confusa dal linguaggio confuso.
Il medico ha ribaltato il compito dell’informazione con il fine immediato di raffreddare l’insofferenza del malato. Non cerca altro.
Qualche giorno dopo rinasce una speranza.
Si viene a sapere che i malati dei vari piani vengono rivalutati con criterio più rigido. In ogni piano viene individuato un gruppo di malati più instabili che vengono trasferiti al piano sottostante. Giuseppe Corte spera che la riorganizzazione renda finalmente libera una camera per lui. Invece un’infermiera gli dice che, per motivi a lei ignoti e inspiegabili, il suo nome è incluso nella lista di quelli che, considerati più impegnativi, saranno tra-sferiti al piano inferiore. Furibonde proteste del malato richiamano il medico. Anche lui dice di non capire questa decisione. Forse c’è stato un malinteso riguardo alla valutazione clinica da lui stesso fornita. La decisione però è operativa. In tutto questo discutere il medico conferma che il posto di Corte è formalmente al settimo piano. Ripete anche che al sesto più efficaci sono le cure di cui ha bisogno. Ma c’è la disposizione di un decisore superiore di trasferire più in basso il malato. Lui non ne è che il portavoce.
La confusione dei messaggi e delle responsabilità abbatte la resistenza di Giuseppe Corte. Come tutte le sere ha la febbre. Troppo stanco per rea-gire, senza altre proteste si lascia portare al piano di sotto. Ingiustamente. Senza capire.
Quattro piani intermedi
Nuovi medici e nuovi infermieri. Gli infermieri, i medici e anche i malati sono concordi: fra tutti, Giuseppe Corte è il meno grave. Purtroppo, dopo tre giorni di condizioni stazionarie, compare un fatto nuovo. Scopre su una gamba una specie di eczema, del tutto indipendente, gli dicono, dalla sua malattia. Insensibile alle prime cure, è però facilmente guaribile con un breve ciclo di radioterapia con i Raggi Digamma. I raggi digamma ci sono, ma al quarto piano. Giuseppe Corte viene così a sapere che le sue condizioni sono tali da sconsigliare lo spostamento dal quinto al quarto e dal quarto al quinto tre volte al giorno. Dovrebbe quindi restare al piano di sotto per i pochi giorni della radioterapia. Non ne vuole sapere e il medico non insiste.
Nei giorni successivi l’eczema diventa più fastidioso e dopo tre notti insonni Giuseppe Corte chiede di scendere per le cure necessarie.
Quasi tutti i malati del quarto sono perennemente allettati. Lui invece va ogni giorno, per tre volte, a piedi in sala raggi. Non ha nulla a che vedere con i malati qui ricoverati, vicino ai quali si trova per circostanze del tutto fortuite. Ne parla con il medico di reparto e il medico, misurando le parole, ma con franchezza, gli fa sapere che è una persona malata. La sua patologia non ha subito particolari aggravamenti, dice, ma non è il settimo piano il posto per lui.
Allora, qual è, al netto dei contrattempi, il piano più opportuno? Il medico ci pensa su, o finge di pensarci. Dice, credendo di farlo contento, che la sistemazione più propizia sarebbe al sesto piano. Corte per la seconda volta nel giro di pochi minuti, è costretto a prendere atto della realtà perché gli sembra di capire che la prudenza ha temperato il giudizio del medico; non al sesto aveva in mente di assegnarlo, ma al quinto, forse anche più in basso. Dopo questo colloquio la febbre sale sensibilmente.
Anche questo medico trova spesso un po’ di tempo per Giuseppe Corte. Si intrattiene con lui sui temi più vari. Parla d’altro, non della malattia, ma conquista la sua fiducia. Abbastanza da consentire a Giuseppe Corte di fare affiorare una curiosità che lo inquieta da tempo: come va il processo distruttivo delle mie cellule?
Il medico non risponde. Svia la domanda mostrandosi sdegnato dal linguaggio grossolano del collega. Giuseppe Corte ha sviluppato abbastanza senso critico da non farsi distrarre e pretende un chiarimento. Il medico ri-prende l’infelice espressione e dice che si tratta di un processo minimo, assolutamente minimo. Però sarebbe tentato di definirlo ostinato.
E allora, chiede Corte, quando potrò sperare in un miglioramento?
Di nuovo il medico non risponde, temendo un groviglio di emozioni troppo impegnativo. Ebbene, le pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è forse il migliore che esista, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal primo giorno, capisce; a uno dei piani più bassi. […] Al terzo o anche al secondo.[…] Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, le garantisco, gli impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile. Inoltre è a questi piani che la forza direttiva del Direttore Professor Dati esprime al massimo la sua potenza direttrice. Ai piani superiori irraggia con efficacia progressivamente minore. Al terzo piano, poi, ci sono macchine dei raggi più potenti. L’eczema infatti persiste, non è una cosa grave ma agisce da fattore depressivo sull'umore del malato. E il medico dice di sapere, come anche sa il malato, che la serenità di spirito è fondamentale per la guarigione.
Senza timore di contraddirsi il dottore dice che, guarito l’eczema, sarà compiuto il primo decisivo passo. Si potrà tornare al quarto e facilmente risalire di piano in piano. L’eczema da problema accessorio è diventato primario.
Non sono le informazioni di cui Giuseppe Corte ha bisogno per affrontare le sue paure e attivare le residue risorse personali; i suoi pensieri continuano a vagare tra speranze di incerto fondamento e minacciose fantasie.
Dopo qualche giorno, chiede di scendere al terzo piano. La scelta, consigliata dal medico in evidente cattiva fede, si rivela intempestiva perché, tre giorni dopo, l’intera equipe del piano va in ferie. È regola dell’ospedale che tutti gli infermieri e tutti i medici di ciascun piano vadano a turno in vacanza, tutti insieme per due settimane. Anche la radioterapia è inattiva per quindici giorni. Di due piani se ne fa uno e Corte, anziché tornare dov’era, scende.
Nella nuova camera, arredata con mobili antiquati e incolori, conta i giorni aspettando il ritorno degli operatori del terzo piano. Ne passano sette ed è sempre più angosciato dai rumori che sente provenire dal piano sottostante. Aveva ragione il medico del quarto: è proprio vero che lo stato emotivo influenza il decorso della malattia. La febbre infatti sale e peggiora il senso generale di spossatezza.
Il settimo giorno vengono nella sua camera due infermieri con una barella. Più sbrigativi dei colleghi dei piani superiori dicono di essere incaricati di condurlo al primo piano. C’è un ordine con la firma del direttore dell’ospedale. Questa volta la reazione è violenta: esplode con grida che riecheggiano per tutto il piano.
Un medico arriva e spiega che si tratta di un errore. Un errore incredibile da mettere in relazione con la confusione che qui regna, dice contraddicendo il collega del quarto che vi aveva collocato la massima espressione delle capacità organizzative del direttore. Alza la voce con gli infermieri. Poi si rivolge con gentilezza a Giuseppe Corte. Purtroppo non si può fare diversamente: nessuno può trasgredire gli ordini del direttore generale. Certamente è stato commesso un errore, ma, al momento, data l’assenza del direttore, non si può fare diversamente. Il medico ha ascoltato il malato. Sembra aver compreso la sua disperazione. Però si sottrae a un rapporto affidabile e colloca entrambi all’interno di una meccanismo burocratico indifferente tanto alle responsabilità che ai sentimenti delle persone.
Ormai un pietoso tremito ha preso a scuotere Giuseppe Corte. La capacità di dominarsi gli è completamente sfuggita. Il terrore l’ha sopraffatto come un bambino.
Il piano più basso
La geometrica organizzazione dell’ospedale, imponente metafora edilizia dell’evolvere delle malattie, non lascia margini di incertezza all’immaginazione di chi arriva al primo piano. Giuseppe Corte lo aveva capito il giorno stesso del ricovero ma ancora rifiuta l’appuntamento con la verità.
Le terapie si sono rivelate inefficaci e non sono state accompagnata dalla cura e dell’accompagnamento. Nessuno gli è vicino quando un impersonale sistema organizzativo gli comunica che sta morendo con il misterioso automatismo della serranda che si abbassa e fa piombare la camera nel buio.
Conclusione
Dire la verità al malato, tra i compiti più impegnativi del medico, è tra i meno considerati dalla formazione e dagli assetti organizzativi. Ha l’obiettivo di rendere il malato più consapevole e più realisticamente coinvolto nel processo di cura. Non basta fare arrivare, tutta insieme a un ma-lato ignaro, un’informazione più prossima possibile alla realtà clinica. È necessario creare un continuo discorsivo attento alla concretezza di sostanza e di linguaggio, sorgente di quella fiducia che completa il significato delle parole e dei silenzi.
L'autore: Sebastiano Castellano
Sono medico ospedaliero in pensione: ginecologo, poi direttore sanitario. Mi sono sempre interessato all'aspetto etico, metodologico e relazionale delle interazioni di cura. Negli ultimi dieci anni ho fatto parte di un gruppo di medici narratori veronesi. Dai nostri incontri è stato ricavata una raccolta di esperienze: I medici si raccontano, Guerini, Milano 2016. In particolare ho dedicato le mie ricerche agli stimoli di riflessione offerti dalle trame e dai personaggi della letteratura. Sono piemontese, laureato in filosofia e vivo a Verona