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1978: Fu follia o azzardo?

1978: Fu follia o azzardo?

Questo racconto fa parte di una serie di 5 racconti raccolti nel progetto "Riflessioni su una porta aperta", realizzato a Perugia nel 2018, dalla psicologa esperta di metodologie autobiografiche, Marina Biasi, con l’obiettivo di raccontare i 40 anni della legge Basaglia dal punto di vista degli educatori che hanno lavorato e lavorano nelle strutture alternative al manicomio.

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche un gesto o un'invenzione
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione

La libertà – Giorgio Gaber 

Quando frequentavo il liceo Galilei, nel 1975 (anno in cui, tra l'altro, il Perugia vinse la serie A allo stadio S. Giuliana ...), dalla sede vicino alla stazione di Sant'Anna ci trasferirono nell'ex padiglione Valiani al parco Santa Margherita – dove vi erano ancora alcuni padiglioni attivi dell’O. P.  -  e nei viali intorno alla scuola incontravamo i primi “matti" che uscivano dal manicomio; penso che l'origine della “mia” follia sia nata lì, dall'incontro con chi ci viveva: ne ricordo bene alcuni, erano matti proprio “segnati”! Uomini e donne che ora definirei “interessanti”. Avevamo anche dei timori nell'entrare in relazione con loro, perché non capivamo bene che tipo di persone fossero e all'inizio questi rapporti si basavano sul prendere in giro, devo dirlo, anche in modo pesante, seppure lo facessimo in modo ingenuo; però con l'andar del tempo, alcuni di loro mi sembrarono decisamente simpatici e ripenso in modo affettuoso ai nostri scambi verbali. 
[…] Poi arrivò il 1979, l'anno della svolta. Nella mia vita ci furono molti cambiamenti: presi la patente, morì mio padre, mi diplomai al liceo scientifico e subito dopo iniziai un lavoro precario presso l'Ufficio IVA. Dopo qualche mese, mi iscrissi pure all'università. Mio padre avrebbe voluto che frequentassi la facoltà di agraria, ma a me non interessava, così come non mi interessavano altri percorsi di studio; ricordo che mi aggiravo tra i banchetti di orientamento universitario senza molta convinzione, finché non trovai qualcosa che attirò la mia attenzione: l'opuscolo che presentava la scuola di Servizio Sociale. Fino a qual giorno non ne conoscevo neppure l'esistenza, ma capii subito che era la scelta giusta per me. Tra i miei amici c'erano alcuni giovani obiettori di coscienza che svolgevano il servizio civile presso una comunità che si trovava a Elce. Questa comunità apparteneva alla comunità di Capodarco, e al suo interno convivevano obiettori di coscienza, ragazzi disabili, studenti universitari, ragazzi scout, militanti di sinistra, attivisti della parrocchia, e a un certo punto arrivai lì anche io. Erano gli anni in cui i giovani vivevano fortemente l'impegno civile e politico. E proprio da quel gruppo nacquero le nostre due cooperative: Il Borgo e La Rete.
Nel 1980 vengo investito, in tutti i sensi, da una proposta “oscena”: dare vita, assieme ad altri giovani, a un'altra comunità in via Campo di Marte, simile a quella di Elce. [...]
Vi era stata da poco la riforma del sistema sanitario, che stava rivoluzionando l'approccio alla disabilità, oltre che alla salute mentale e alla tossicodipendenza. La neonata Unità Sanitaria Locale si stava facendo carico degli ospiti della ex residenza di Compresso e in questo processo, quindi, chiese aiuto ai giovani della comunità di Elce affinché, forti della loro esperienza di vita residenziale, creassero una nuova realtà in grado di ospitare sette persone. Con quella esperienza nacque il Borgo, e anche io nacqui come operatore, con la totale incoscienza dei miei vent'anni. [...]
La nostra comunità, al suo esordio, si caratterizzò per la sua identità di tipo familiare, accogliendo al suo interno una decina di persone che comprendevano disabili fisici, disabili che definirei istituzionali, ma anche persone con disagio di tipo sociale, come le cosiddette ragazze-madri, o tossicodipendenti, o giovani senza fissa dimora, o immigrati irregolari, e infine persone con disagio mentale; queste ultime, via via, sono diventate più numerose, e la cosa singolare è che di queste persone non avevamo davvero la titolarità dell'accoglienza. [...] In quel periodo abbiamo fatto cose non propriamente consentite, se non avventate, sono cose che oggi non farei e non proporrei agli operatori, ma allora le abbiamo fatte e grazie a quelle esperienze mi sono arricchito come persona, oltre che come operatore. Posso dire che ho imparato facendo e studiando (anche se ci ho messo tanto per prendere il diploma) e come me tanti altri hanno imparato a diventare operatori sociali attraverso il fare. Per noi il protagonista era il “servizio” e “l'idea di servizio” che avevamo, cioè il mettersi a disposizione senza risparmio, e farlo con un obiettivo, una finalità, uno scopo da condividere con gli ospiti. Sarebbe falso dire che volevamo annullare la distanza tra noi e loro, ma sicuramente credevamo nella riduzione di questa distanza.
[…] Questa comunità, man mano che gli anni passavano, si è orientata verso la salute mentale come ambito unico della sua identità. Il nostro lavoro, tra fine anni ‘70 e primi anni '80, era caratterizzato dalla grande fatica di rispettare i bisogni di ciascuno, avendo però sempre presente la dimensione gruppale, in cui al centro vi era la condivisione. L'impostazione era quella secondo cui ognuno aveva sia diritti che doveri. Detto in altre parole, significava che il disagiato è disagiato e l'operatore è operatore, ma tutti sono persone e cittadini; nella vita quotidiana questo si traduceva nel fatto che in casa non c'era l'assistito e l'assistente, ma ciascuno faceva quel che c'era da fare secondo le sue possibilità. Fino a questo momento non l'ho ancora detto, ma quello che pensavamo di fare e volevamo fare era  superare l'emarginazione sociale, combatterla.
Io penso che anche oggi sia questo il nostro compito: è un tipo di lotta, quello all'emarginazione sociale, che non si arresta mai, anche se nel corso del tempo può cambiare volto.  

[…] Mi ha fatto bene raccontare tutto questo, perché personalmente sento un'esigenza di narrazione, questa è cosa che ci concediamo a fatica, o molto poco o addirittura per niente! 
È importante prendersi tempo per la rielaborazione del proprio percorso, per guardare come si trasformato, e come ancora può trasformarsi.

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