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Notizie e narrazioni

1988:Quel ponte che parte da sotto al termosifone

1988:Quel ponte che parte da sotto al termosifone

Questo racconto fa parte di una serie di 5 racconti raccolti nel progetto "Riflessioni su una porta aperta", realizzato a Perugia nel 2018, dalla psicologa esperta di metodologie autobiografiche, Marina Biasi, con l’obiettivo di raccontare i 40 anni della legge Basaglia dal punto di vista degli educatori che hanno lavorato e lavorano nelle strutture alternative al manicomio.

Si può fare, si può fare
puoi prendere o lasciare
puoi volere, puoi lottare
fermarti e rinunciare.
Si può fare, si può fare
puoi prendere o lasciare
si può crescere, cambiare
continuare a navigare. 

Angelo Branduardi – Si può fare

Raccontare la mia esperienza nel mondo della salute mentale la sento come un'opportunità bellissima: è come prendermi per mano e accompagnarmi nel mio passato di operatrice; passato che è sempre presente dentro di me: a volte mi basta vedere un film, ascoltare una canzone o passare vicino al parco Santa Margherita e si risvegliano tutte le emozioni legate a quel periodo.

La mia storia ebbe inizio quando frequentai il corso per operatori di comunità realizzato nei padiglioni dell'ospedale psichiatrico ancora attivi. Già il fatto di frequentare un corso nel luogo della sofferenza fu un'esperienza molto forte: fare lezione in quegli spazi enormi, dove arrivavano fino a noi le urla dei pazienti, mi rese consapevole della complessità della situazione … alcuni miei compagni di corso dopo tre giorni capirono di non essere nel luogo giusto e abbandonarono … io invece ero talmente motivata e coinvolta emotivamente in quel processo, da andare ogni mattina all’ospedale psichiatrico con grande curiosità e voglia di imparare. Terminato il corso, superai l'esame e, assieme ad altri nove operatori, fui scelta per entrare a far parte della prima équipe del privato sociale che avrebbe realizzato il processo di de-istituzionalizzazione assieme agli psichiatri e agli infermieri. In quel tempo - parliamo della fine degli anni ‘80 – alle Istituzioni era ben chiaro come fosse necessario entrare nelle mura del manicomio anche con operatori di altra formazione e provenienza. 

Durante il corso, oltre alle lezioni teoriche, dovevamo svolgere un tirocinio, ovvero dovevamo entrare in relazione privilegiata con un paziente, studiare la sua cartella clinica, partecipare a riunioni in cui ci si confrontava sulla sua situazione a partire anche dalle nostre osservazioni. Già in fase di formazione diventavi care-giver di qualcuno. A me fu affidato un paziente di una certa età, una persona che ho amato molto. Tra noi scattò subito qualcosa di positivo: ci fu curiosità da parte sua e apertura da parte mia e così, grazie a questa corrente reciproca, ci siamo accolti e “raccontati” l’uno altra.
Nella sua cartella clinica – ingiallita dal tempo – alla voce “cause della malattia” c'era scritto: insolazione. Leggendo queste parole ti rendevi conto di quali erano state, nel passato, le condizioni che portavano le persone a entrare in manicomio [...]

Già nei primi mesi di lavoro i pazienti iniziarono a prendere confidenza con noi, ci vedevano tutti i giorni andare a reparto e di quel periodo ricordo soprattutto lo sguardo … sì, perché molti pazienti erano raggomitolati per terra, sotto il termosifone e io compresi che l'unica cosa che potevo fare era mettermi alla loro altezza, cercare il contatto con i loro occhi: guardarli e farmi guardare. Ogni tanto arrivava anche un sorriso, da quel termosifone, o uno sguardo curioso che sembrava chiedere “e tu chi sei?”
Dopo alcuni giorni qualcuno iniziò a chiedermi il mio nome: glielo dissi e poi anch'io, a mia volta, domandai quale fosse il loro. Scoprii così che alcuni lo avevano dimenticato per lasciare il posto a un nomignolo, infatti quando entravi là dentro, la tua identità la lasciavi fuori, insieme alla tua storia.

Finché accadde, dopo giorni e giorni trascorsi così, che due di loro mi domandassero: ma allora tu vieni qui tutti i giorni? E in quel momento capii che qualcosa era accaduto; quella fu per me la chiave che mi fece comprendere che potevo iniziare a far qualcosa con loro, infatti risposi: dal lunedì al sabato io verrò tutti i giorni, Carlo verrà tutti i giorni e vogliamo conoscervi, capire se possiamo fare qualcosa insieme a voi.
Quella domanda “vieni qui tutti i giorni?” era il loro modo di dire: ma veramente mi posso fidare? veramente ti interessa la mia vita?
E quindi questa presenza costante già apriva a una possibilità di relazione; ricordo anche un altro episodio del primo periodo: arrivai al reparto con le scarpe slacciate, un paziente me le indicò ridendo, e io gli risposi ringraziandolo per avermelo fatto notare! Con quell'uomo quel giorno nacque un'empatia particolare: aveva visto una mia debolezza e io gli avevo riconosciuto la capacità di prendersi cura di me.

Ecco, questo episodio, come tanti altri su cui ci confrontavamo con i colleghi, mi fece capire che si stava andando nella direzione giusta, perché mettevamo in circolo vita vera, non un dogma o una dottrina.
Pian piano abbiamo visto che si poteva scardinare la rigidità, lo sguardo fisso e sentivamo una grande responsabilità, perché non potevamo deluderli, e tornando ogni lunedì non li deludevamo: la loro storia assieme a noi poteva continuare.
[...]

Il progetto Riflessioni su una porta aperta 
parte 1 - parte 2

Gli altri racconti:
1978: fu follia o azzardo?

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