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Notizie e narrazioni

2018: Piccola donna giovane

Piccola, donna, giovane

A cura di Marina Biasi
Questo racconto fa parte di una serie di 5 racconti raccolti nel progetto "Riflessioni su una porta aperta", realizzato a Perugia nel 2018, dalla psicologa esperta di metodologie autobiografiche, Marina Biasi, con l’obiettivo di raccontare i 40 anni della legge Basaglia dal punto di vista degli educatori che hanno lavorato e lavorano nelle strutture alternative al manicomio.

Ma come vorrei avere i tuoi occhi, spalancati sul mondo come carte assorbenti 
e le tue risate pulite e piene, quasi senza rimorsi o pentimenti, 
ma come vorrei avere da guardare ancora tutto come i libri da sfogliare 
e avere ancora tutto, o quasi tutto, da provare... 

Francesco Guccini – Culodritto


Sono contenta di poter raccontare quel che significa per me lavorare nella salute mentale, quel che faccio, osservo, vivo e elaboro ogni giorno, sia con gli ospiti, che con i colleghi. Sento che è una grande opportunità raccontare quel che faccio da sei mesi soltanto, ma che ha travolto le mie giornate e ha riempito il mio tempo. Mi rendo conto ogni giorno che questo non è un lavoro e basta, ma è qualcosa che porti sempre con te, ti forma, ti struttura, ti aggiunge un tassello in più. Sento di essere in una fase di cambiamento ... il mio lavoro è una bella palestra, è impegnativo, coinvolgente a livello fisico e interiore. Alla fine della giornata, alla fine del turno senti che esci un pochino più dritta rispetto a quando sei entrata: è una formazione lenta, ma efficace. 
Il mio ingresso nel mondo della salute mentale è avvenuto in tre giorni significativi: il primo giorno è quello in cui mi ha chiamato la responsabile mentre ero al lavoro precedente - lavoravo nel settore minori - e mi ha chiesto se ero disponibile a fare un colloquio per andare a lavorare in una comunità terapeutico-riabilitativa. Ed io mi son detta: perché no? Perché non provarci? 

Anche perché io nasco come educatrice ... sono un’educatrice e questo significa avere uno sguardo aperto e a tutto tondo, io vedo l’educazione ovunque … è vero che lavorare nella salute mentale non lo avevo contemplato, ma ho accettato di fare il colloquio; il secondo giorno è stato quello in cui ho svolto questo colloquio con la responsabile della cooperativa che mi ha illustrato il tipo di lavoro richiesto e non mi sono spaventata per il fatto di non conoscere questo ambito, al contrario … mi sono incuriosita; mentre tornavo a casa mi son detta che speravo di aver superato il colloquio, perché mi sembrava che sarebbe stata una bella opportunità per imparare qualcosa, per approcciarmi a un’esperienza del tutto nuova. La salute mentale l’avevo solo studiata sui libri all’università … avevo una serie di conoscenze sul piano teorico, e nonostante ciò mi sentivo molto tranquilla e serena, in attesa di sapere se avrei iniziato a lavorare lì o meno. E così arriviamo al terzo giorno, quello in cui, dopo la telefonata di conferma, entro davvero alle Fattorie. Ero piena di aspettative, di domande … sono arrivata davanti al primo appartamento, ho aperto la porta e mi son trovata davanti una donna con una gran massa di capelli bianchi arruffati: indossava un giaccone nero con il bordo di pelliccia, gli stivali e aveva una borsa in mano. Ha incrociato il mio sguardo, fissandomi negli occhi. Io non sapevo se mi trovassi davanti un’ospite o una persona che lavorava lì. In quel mentre è arrivata un’operatrice che mi ha accolto, mi ha fatto entrare in una stanza in cui c’erano dei tavoli e alcuni ospiti che probabilmente si accingevano a far colazione. Ho avuto una sensazione di spaesamento, almeno per dieci minuti buoni non sono stata in grado di comprendere bene dove fossi  … dentro di me mi ripetevo “io qui non ci sto, io qui non rimango” … ero dibattuta tra il desiderio, le aspettative e il timore di non farcela … ciò che mi aveva così colpito era proprio lo sguardo di quella donna - uno sguardo perso, fisso - che mi aveva dato una sensazione forte, era come se mi dicesse “qui c’è il fallimento” … mi son detta che probabilmente vivevo il contrasto tra ciò che avevo vissuto nel contesto precedente e quello che avevo trovato lì: quando arrivavo al lavoro, fino al giorno precedente, ciò che trovavo erano dei bambini vocianti, vivaci, che mi chiedevano mille cose, avidi di vita; in quella stanza, invece, vedevo adulti con lo sguardo spento e quella donna che mi fissava. 

Dopo quei primi dieci minuti di sgomento, mi sono detta che non potevo arrendermi così, subito, alla prima impressione, e che dovevo seguire quella che è stata una vera e propria chiamata da educatrice … e così ho seguito la referente che mi ha fatto vedere tutta la struttura, gli appartamenti, abbiamo stabilito un programma di lavoro in affiancamento per i primi giorni, e quando sono tornata a casa, ripercorrevo dentro di me tutte le sensazioni della giornata, tutto quello che avevo visto: la stanza di un ospite che ha l’abitudine di scrivere sulle pareti, la stanza di un altro che era piena di libri e quaderni … ogni stanza era un mondo … un mondo saturo di storie uniche e singolari. In quel momento ripensavo che quello che avevo letto sui libri di studio non poteva rendere l’idea di cosa fosse davvero il disagio mentale. Ricordo di aver visto anche le stanze delle donne, e di aver avuto l’impressione di trovarmi in un appartamento di studentesse universitarie, in cui ciascuna lascia la propria impronta … tutto questo pensavo in quel primo giorno, assieme alla convinzione di dovermi dare il tempo, di non potermi fermare a quella sensazione di spaesamento … e il desiderio di conoscere ha preso il sopravvento rispetto alla paura iniziale. Nei giorni immediatamente seguenti la paura dovuta alla imprevedibilità che mi comunicavano gli ospiti è stata piuttosto pervasiva. Ricordo in particolare un episodio: ero in cucina, accanto al lavandino e stavo tagliando della frutta con un coltello, a un certo punto avvertii la presenza di un’ospite dietro di me, una donna che a volte è un po’ aggressiva. Si avvicinava con uno sguardo che mi sembrò particolarmente minaccioso e provai un grande timore, invece non successe proprio nulla, anzi ... mi chiese qualcosa in modo tranquillo.

 Da quel giorno ho capito che, pur dovendo fare attenzione ai miei comportamenti, dovevo dar fiducia a lei come a tutti gli altri ospiti; capii anche che, prima di tutto, avevo a che fare con delle persone, e che dovevo partire dal mio essere una persona, oltre che un’educatrice con una laurea, per entrare in relazione autentica con loro. Questa consapevolezza mi ha aiutata molto a superare il senso di insicurezza e a cercare la mia modalità di approccio. Alcuni colleghi mi hanno sostenuto molto in quel periodo, soprattutto la referente e un altro operatore entrato assieme a me. Assieme a Marco abbiamo avuto da subito un confronto su quello che osservavamo e su quello che ci capitava, mentre la referente ci ha invitato a esprimere tutti i nostri dubbi e domande, sottolineando come il nostro sguardo “nuovo” avrebbe aiutato gli operatori “storici” a vedere ciò che ormai era diventato invisibile ai loro occhi. Ci sono state colleghe che hanno avuto con noi un atteggiamento che definirei protettivo … quasi materno, con il quale ci mettevano in guardia rispetto a quel che poteva accadere, altri hanno avuto un atteggiamento un po’ più distaccato. Per quanto riguarda l’operatività, tra le cose che all’inizio mi avevano colpito negativamente e che ho fatto notare ai colleghi, c’era la gestione del quotidiano … ad esempio non mi piaceva che ci fosse un atteggiamento basato sull’indispensabile al momento della colazione: nessuno degli ospiti diceva per favore o grazie … in generale si era sbrigativi e poco attenti. Ho condiviso queste mie osservazioni con i colleghi e qualcuno diceva che tutto questo normale, che si era sempre fatto così, ma per me non era normale e allora ho pensato che questa routine poteva essere cambiata. Ho così iniziato la campagna del per favore, grazie, prego; qui nessuno serve qualcun altro, ma facciamo tutti le cose in modo collaborativo…
Certo, non è facile cambiare le abitudini, anche perché alcuni ospiti cominciano ad essere anziani, ma ho creduto opportuno provarci e vedere cosa poteva succedere e alcune cose hanno iniziato a modificarsi. Questo per me ha significato anche definirmi come persona e come operatrice davanti a quegli ospiti, soprattutto uomini, che mi vedevano piccolina, giovane e donna. Erano i primi giorni, e alcune colleghe mi avevano detto che era importante il modo in cui avrei impostato il mio ruolo, perché questo avrebbe poi influenzato il seguito e sarebbe servito per non farmi sopraffare. 

Io penso che la figura dell’operatore debba essere chiara prima di tutto a se stesso e poi ovviamente anche agli ospiti: noi siamo lì per definirci in un rapporto reciproco e con un rispetto reciproco, da persona a persona. 
Per me è necessario aver presente questo processo: noi stiamo con loro non per fare da servitori, ma per aiutarli, anche perché molte cose saprebbero e potrebbero farle anche da soli, sicuramente ci vorrebbe più tempo, ma non possiamo fare noi al posto loro, ciò alimenta solo la passività. Ricordo bene il giorno in cui ero da sola in cucina e dovevo preparare la prima colazione, un ospite mi chiese in modo molto rude di portargli una tazza … allora gli risposi: chiariamo subito una cosa, sia per il quieto vivere, sia per stare bene io e lei … io sono una persona e lei anche, non sono venuta qui per servire nessuno, in questo momento sono da sola, potrebbe anche venire a darmi una mano … 
Da quel giorno lui ha cambiato il suo atteggiamento e se ci vede in cucina ci offre il suo aiuto … ecco … a me sembra che se non si fa attenzione a queste cose, si smarrisce il senso del nostro lavoro, e invece dobbiamo ritrovarlo, dobbiamo dircelo e dobbiamo dirlo: noi non siamo secondi a nessuno, il quotidiano lo viviamo noi … non dobbiamo fermarci solo a sottolineare le cose che non vanno nel nostro lavoro, come alcune criticità nella relazione con i Servizi … noi siamo coloro a cui hanno affidato la quotidianità, questo vuol dire che hanno fiducia in noi … e questa fiducia, a nostra volta, dobbiamo riversarla nelle relazioni con gli ospiti, giorno dopo giorno … forse ci vorranno due anni prima di vedere dei cambiamenti, ma è proprio questa la prospettiva educativa … fare un passo alla volta nei piccoli gesti quotidiani.
La quotidianità di una struttura che lavora nella salute mentale è fatta di atti semplici ed essenziali, uguali a quelli della vita di ciascun essere umano: far la lavatrice, farsi una doccia, apparecchiare la tavola, andare dal medico, andare in vacanza, andare a correre al percorso verde, far la spesa al supermercato, fare il riposo pomeridiano, giocare a bocce, frequentare un laboratorio … e tutto questo, sebbene lo immaginassi, nella pratica mi ha meravigliato, perché nessuno me lo aveva raccontato. Ho conosciuto una realtà estremamente variegata e interessante che i libri non raccontano; i testi universitari riportano il punto di vista del legislatore e quello medico-sanitario, ma non quello degli operatori che vivono la quotidianità delle relazioni. Lavorando lì ho scoperto che si fanno diverse cose interessanti, e ho scoperto che gli ospiti sono delle persone estremamente creative: vengono chiamati “matti”, e se invece provassimo a vederli come persone che hanno un altro punto di vista sulle cose? Un altro modo di concepire la realtà?
Io credo che oggi noi operatori possiamo essere di nuovo promotori di cambiamento culturale, partiamo da questo livello e raccontiamo quello che facciamo. Il rinnovo del ruolo dell’operatore potrebbe proprio essere questo, perché solitamente si pensa che chi ha disagi mentali sta al repartino o sta a casa senza far nulla, invece non è vero, c’è tanto altro, molto altro e questo altro deve essere conosciuto dal resto del mondo, della società civile. È vero, c’è una legge, ci sono i centri di salute mentale, ma se si dice solo questo, si perde l'opportunità di conoscere le persone e il loro modo peculiare di essere persone. Quando manca la conoscenza, prevale la paura, esattamente come è successo a me nei famosi primi dieci minuti del mio primo giorno di lavoro. Bisogna raccontare la loro vita vera. Questo secondo me ancora manca. Il manicomio non esiste più, ma quello che ancora oggi può renderlo reale, esistente è il modo di rapportarsi con chi ha disagi mentali, non è necessario che ci sia la camicia di forza, i cancelli … e noi operatori abbiamo il compito di raccontare tutto questo a chi sta intorno a noi, dobbiamo raccontare che l’educazione e la cura passano attraverso i gesti quotidiani, e che anche grazie a questo racconto il nostro lavoro diventa educativo, in primis nella nostra testa di operatori. Altrimenti ci sentiamo e siamo visti come badanti e basta. Bisogna riscoprire il significato che diamo noi al nostro lavoro e veicolarlo fuori. 

Se ora facessimo un sondaggio e chiedessimo alle persone per strada cosa ne sanno della salute mentale, la maggior parte direbbe che ci sono i matti, individui che vivono su un altro pianeta, che sono imprevedibili e possono aggredirti. Non ci si chiede chi davvero siano queste persone e come vivono. Se noi raccontiamo le loro esistenze, le rendiamo riconoscibili … non penso che sia semplice o facile, ma questa è l’essenza del nostro lavoro!
Prima dicevo che quando esco da un turno di lavoro esco un po’ più dritta rispetto a quando sono entrata, e questo perché ho trascorso del tempo con persone che vivono delle difficoltà e aver a che fare con la fragilità e la difficoltà significa cercare le modalità per affrontarle e provare a superarle, o perlomeno a gestirle. E questa ricerca contribuisce a raddrizzarmi … 
Spesso nel nostro lavoro viviamo il rischio del fallimento degli obiettivi che ci poniamo, ma anche quando fallisco, esco dal turno più dritta, perché sto imparando a guardarlo in faccia senza paura. Se lavoro lì, so che incontrerò il fallimento, ma devo cercare di farmelo amico, proprio per non farmi risucchiare dal suo vento negativo. Se qualcosa non mi riesce, cercherò un’altra strategia e un’altra ancora, e poi un’altra! Ogni giorno cerco di arrivare al lavoro rinnovata … se faccio così ho più probabilità di essere di esempio per gli ospiti, do’ 100 e forse arriva 10, ma da quel 10 io posso partire.

Ricordo un pomeriggio di questa estate in cui le lavatrici erano state fatte, la cena era pronta, non erano previste particolari attività e il tempo sembrava non passare mai … mi sono ricordata di avere un pallone in macchina e allora ho proposto agli ospiti di giocarci assieme … considera che da noi ci sono persone di 65, 68 anni … dapprima mi hanno guardata come se fossi un’aliena, ma poi abbiamo iniziato a passarci la palla e anche la persona più anziana che diceva di avere male a un piede ha giocato … sembrava una cosa incredibile e invece lo abbiamo fatto con piacere, quello non è stato un pomeriggio perso … è stato un pomeriggio in cui abbiamo fatto una cosa diversa dal solito … e secondo me anche questo significa fare l’operatore: arrivare in turno sapendo che potrò proporre cose diverse da quelle che ho fatto il giorno prima, e questo mi aiuta a non farmi macinare dalla ventola del fallimento.

Un altro episodio che voglio ricordare riguarda l’uso della lavatrice da parte degli ospiti; la lavanderia è un luogo “critico”, perché ha al suo interno detersivi o altri strumenti che potrebbero risultare pericolosi, quindi è un luogo chiuso a chiave a cui l’ospite accede con la presenza dell’operatore. A volte mi capita di dare la chiave della lavanderia alla persona che me la chiede e di darle il tempo di avviarsi, aprire la porta e dopo un paio di minuti arrivo io: questo è un modo per dare fiducia, sapendo che in quei pochi minuti non potrà accadere nulla di irreparabile, ma intanto creo un contesto relazionale da persona a persona, che è il nucleo dell’azione educativa …
Ciò ha a che fare con la questione del fallimento: noi lavoriamo con persone che hanno fallito molte cose della loro vita, se io le metto nelle condizioni di poter gestire la questione della chiave della lavanderia, impedisco che possa impilarsi un altro mattoncino lungo il muro del fallimento.

Un altro esempio riguarda la questione della sigaretta; nei giorni successivi al mio arrivo i colleghi mi hanno detto di non cedere alla richiesta di avere la sigaretta la sera prima di andare a dormire, perché se l’avessi data la prima notte, poi me l’avrebbero chiesta tutte le notti e sarebbe stato molto difficile dire di no. In uno dei primi turni di notte un’ospite mi ha detto che stava male fisicamente e che se avesse potuto fumarsi una sigaretta poi sarebbe stato meglio, allora io ho parlato con lui dicendogli che per quella notte, in considerazione del fatto che si sentiva male gli avrei dato la sigaretta, ma che questo non doveva diventare un’abitudine quotidiana, e così è stato. Gianni non mi ha chiesto la sigaretta tutte le volte in cui facevo il turno di notte, ma solo alcune volte in cui stava male e io sapevo che stava male, anche perché lui era uno che esprime i suoi stati d’animo. Per me è stato importante renderlo responsabile delle sue scelte, non potevo assumere un atteggiamento aprioristico, ma dovevo stare attenta alla situazione contingente e soprattutto dargli fiducia, coinvolgerlo nelle scelte che lo riguardano. È così che vedo l’educazione e la cura. E questo è ciò che dobbiamo saper raccontare, altrimenti gli ospiti sono visti solo come i matti che hanno bisogno di assistenza e noi come quelli che fanno l’assistenza ai matti; invece noi siamo quelli che hanno una cultura da raccontare e questo dobbiamo farlo anche per dare voce a chi voce non ha mai avuto.
Tutto questo dobbiamo condividerlo, in primis tra noi colleghi, ma poi anche con i medici, gli infermieri, gli altri operatori della cooperativa. E poi anche con chi sta fuori. 
L’educazione può passare solo attraverso una cura autentica che rimetta al centro l’essere umano, non solo l’assistenza o il dare le terapie. Per avere rispetto e fiducia in quello che si fa, in quello che si è.




Il progetto Riflessioni su una porta aperta 
parte 1 - parte 2

Gli altri racconti:
1978: Fu follia o azzardo?
1988: Quel ponte che parte sotto al termosifone
1998: Se una notte d'inverno un pioniere
2008: Oltre il confine, remando lungo il fiume


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  • Cosa si intende per "Psichiatria Narrativa"

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