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Un'esperienza di

Un'esperienza di "Psichiatria Narrativa"

A cura di Fabio Foti
Nel maggio 2005 lo scrittore David Foster Wallace tiene un discorso davanti ai laureandi del Kenyon College e lo inizia raccontando questa storiella: “Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un poco e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”.
Ecco, la narrazione è la nostra acqua, la cosa che non vediamo tanto è onnipresente. Ma ad un certo punto nello sviluppo della cultura, qualcuno l’ha scoperta, ne ha fatto oggetto di studio e ha contagiato le discipline e i saperi più diversi. Tutto questo ha richiesto alcuni decenni di lavoro intellettuale, durante i quali si è persino coniata l’espressione “svolta narrativa” ad indicare la crescita inarrestabile di interesse per l’argomento.
Poi qualcuno ha pensato di utilizzare le conoscenze sulla narrazione per restituire alla medicina quel significato di cura che era andato perduto con il paradigma “scientifico” dominante. Nasce così la medicina narrativa. Si tratta di una risposta coerente e attuale alla crisi di un modello che aveva accantonato troppo in fretta il significato esistenziale della malattia. Ad ammalarsi sono persone che vengono curate da altre persone. La cura non può limitarsi alla riparazione di corpi da parte di tecnici. Non può funzionare. Aver capito questo è il merito dei promotori della medicina narrativa.

Va bene, ma a che serve tutta questa premessa? Diciamo che permette di delineare lo sfondo della mia esperienza. Per molti anni ho seguito l’evolversi della riflessione sulla narrazione. Ho letto libri e articoli. Poi mi sono intestardito ad applicare queste conoscenze nella mia pratica clinica. Mi sono sentito un pioniere. Nel 2004 ho pubblicato un articolo in una rivista di letteratura. Si intitolava “Pathos in fabula: la narrazione in psicologia e psichiatria”. Mi sentivo come l’anziano pesce: ragazzi, com’è l’acqua?
Negli anni successivi ho cercato di diffondere tra i colleghi la conoscenza della medicina narrativa, anche con eventi formativi, alcuni strutturati e accreditati. Avevo adottato il racconto di Tolstoj “La morte di Ivan Il’ic” come testo da utilizzare. Era un’idea non troppo originale ma efficace. Mi sembrava tutto molto semplice. La narrazione era la soluzione del problema di tenere insieme l’identità, il vissuto, la relazione; ogni elemento della cura poteva trovare il suo posto nella narrazione, in una prospettiva eticamente fondata e rispettosa dei ruoli. 

Tuttavia mi sono presto reso conto che nulla era veramente semplice. Ho scoperto che ci sono difficoltà, rischi, resistenze. Nonostante ogni sforzo di fondare la pratica sulla competenza che avevo maturato, mi sono accorto di non riuscire a raggiungere lo scopo che mi ero prefisso. Gradualmente, mi sono ritrovato a esercitare una “psichiatria narrativa” limitata alla clinica. Avrei preferito diffondere una cultura e uno stile di lavoro fondato sulla narrazione, ma non sono riuscito a vincere diffidenze e rigidità.

Che cos’è la Psichiatria Narrativa

A questo punto bisogna quindi chiedersi come si possono utilizzare le competenze, le esperienze, i saperi accumulati in tanti anni. Ma la domanda è innanzitutto: in cosa consiste la psichiatria narrativa?

Cominciamo a rispondere con un esempio basato sull'esperienza clinica. Cosa accade quando si vede un paziente per la prima volta, una persona che si rivolge ad un operatore della psichiatria? Il paziente si trova di fronte un medico (o uno psicologo, un infermiere, un assistente sociale, un educatore ecc.) "strano", uno che non ha fretta, fa poche domande, non esprime giudizi e ascolta. Si tratta di un'esperienza nuova. Inizialmente con qualche diffidenza, poi con più fiducia, il paziente racconta della sua sofferenza. Man mano che procede, l'occasione di poter parlare liberamente di un argomento che mette gli altri sulla difensiva è utilizzata per dire tutto quanto era rimasto in ombra. Il poter raccontare la propria vita porta alla luce una storia personale elaborata sul momento. Il paziente non si limita quindi a comunicare delle informazioni al medico, ma costruisce narrativamente un diverso significato delle emozioni negative, facendo così il primo passo per stare meglio. Il primo colloquio è anche questo momento di elaborazione narrativa, molto più importante di quello che sembra.

Con il proprio linguaggio verbale, il paziente riporta episodi, vissuti, pensieri, in uno specifico modo che gli è caratteristico. Usa le sue capacità di articolare un discorso, sulla base del suo modo di organizzare e richiamare la memorizzazione dell'esperienza. La competenza linguistica, le funzioni cognitive e intellettive, i processi di pensiero, gli stati emotivi, concorrono tutti alla verbalizzazione, determinandone i contenuti, lo stile, la struttura. 

Certo sarebbe un'ingenuità credere che il paziente si riveli totalmente nel suo raccontare, in modo limpido e univoco. Una narrazione conserva sempre una certa opacità. In realtà, come ogni persona, è sottoposto ad alcune variabili che deformano il suo discorso e che appaiono correlate a ogni relazione interpersonale. Innanzitutto il paziente è guidato da aspettative e inevitabilmente da pregiudizi che riguardano la situazione relazionale che sta vivendo. Anche se affronta per la prima volta una visita psichiatrica, ha già una rudimentale idea di quello che è meglio portare nel discorso. Se si trovasse di fronte ad un ortopedico, sicuramente parlerebbe d'altro e in modo diverso. Invece il paziente si trova di fronte una persona che interagisce e risponde al suo racconto. Per quanto l’operatore cerchi di astenersi dall'intervenire, è più che probabile che il paziente sia molto attento ad ogni pur minima reazione del medico e la interpreti, o almeno reagisca inconsapevolmente, in quest’interazione. Un terapeuta muto, immobile e amimico sarebbe comunque tutt'altro che “neutrale”, sarebbe disorientante e persino angosciante, è ovvio. Un colloquio, per definizione, si fa con l'altro, anche nel senso che il discorso di uno è prodotto della qualità dell'ascolto dell'altro. Se si vuole dunque consentire al racconto del paziente di prodursi con la massima spontaneità, sarebbe bene affidarsi ad un ascolto sintonico. Questo tipo d'ascolto implica una certa attività, o meglio, una reattività pronta e flessibile, una spontanea e rispettosa sintonia.

Può dunque un medico (o un qualunque altro operatore della salute mentale) rinunciare a una qualche competenza umanistica, senza rischiare di perdere un potente strumento di cura oltre che una chiara virtù etica? Domanda retorica, ma non così scontata. Si tratta di cambiare mentalità e di vedere il proprio lavoro in modo diverso. 

Il racconto degli eventi che hanno accompagnato o preceduto la comparsa dei sintomi è certamente una narrazione. Questo non vuol dire che possa essere analizzata come se fosse un testo scritto. All'interno della comunicazione interpersonale vi sono forme diverse, verbali e non-verbali, narrative ma non solo. La trascrizione di un colloquio non può essere sottoposta ad analisi narratologica senza ammettere di dover rinunciare a una parte essenziale della relazione come è avvenuta in quel contesto. Per esempio si immagini che durante un colloquio il paziente si interrompa brevemente, con gli occhi lucidi, per poi riprendere il discorso. Un importante segno non verbale si perderebbe in una trascrizione delle parole che sono state dette dal paziente e il significato del discorso ne verrebbe impoverito (a meno di non riuscire a rappresentarlo graficamente). Questo perché quel discorso nasce in un incontro, il cui senso si sviluppa attraverso tutti gli strumenti comunicativi caratteristici di quel contesto.

Accompagnare lo sviluppo di una relazione con la competenza narrativa


Questa breve illustrazione dell’iniziale rapporto terapeuta-paziente mostra già come la prospettiva narrativa possa arricchire e orientare il processo di cura. Dopo questo iniziale approccio si sviluppa un rapporto che è fatto di diagnosi, terapia, riabilitazione (a volte). E in questo percorso la prospettiva narrativa può dare un contributo fondamentale, può accompagnare lo sviluppo della relazione.
Fare una psichiatria narrativa significa prestare attenzione a tutto questo. Significa mettere la competenza narrativa (quella del curante come quella del paziente) a disposizione della cura. Non importa se un curante usa i farmaci o la psicoterapia, se si avvale di percorsi residenziali o di un complesso di strumenti multidisciplinari. La competenza narrativa gli offre comunque la possibilità di avvicinare il paziente e di renderlo protagonista della cura, nella convinzione che la storia del paziente sia la miglior guida per le decisioni che si devono prendere. Le competenze tecniche e scientifiche non vengono accantonate o svalutate. Vengono invece messe a disposizione del paziente nel modo più efficace e rispettoso, quello che riconosce alla persona ammalata il compito di dare un senso al cambiamento che avviene nel suo corpo o nella sua mente.

Ecco come si possono utilizzare le competenze, le esperienze, i saperi. Mettendole a disposizione delle persone che si ammalano, ma anche dei colleghi, dei familiari dei pazienti. La mia esperienza mi ha insegnato questo. Si può fare una psichiatria migliore. 
Ma non si può fare da soli. Bisogna affrontare questo compito tutti insieme.


Leggi il commento all'articolo del professor Antonio Virzì:  "Di cosa parliamo quando parliamo di di psichiatria narrativa"



Fabio Foti è laureato in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli Studi di Padova, dove ha anche conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione di medico-chirurgo e la Specializzazione in Psichiatria. Lavora come Dirigente Medico, specialista in psichiatria, presso il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell'ASL 3 GENOVESE della Liguria.
Presso il Dipartimento di Salute Mentale dell'ASL di Alessandria, ha coordinato un gruppo di lavoro che ha stilato una Carta Etica per la psichiatria (pubblicata sulla rivista Janus n.35 autunno 2009, pag. 39-44). Da molti anni si interessa di medical humanities e di medicina narrativa.

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