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Autopatografie: se il cancro non è (solo) guerra

Autopatografie: se il cancro non è (solo) guerra

A cura di Silvia Rossi
Ospitiamo un'intervento di Silvia Rossi, dottore di ricerca in Letteratura Italiana presso l’Università di Paris Ouest  – Nanterre, che ci parla del rapporto tra autopatografie e cancro.

All’inizio fu Nanni Moretti: era il 1993, e il regista, nella terza puntata di Caro Diario, racconta la sua esperienza di cancro: i sudori, il prurito, l’erranza da un medico all’altro, e, infine, la diagnosi di linfoma di Hodgkin e i trattamenti.
A partire dall’anno 2000 il numero di scrittori che scelgono di condividere la propria esperienza di malattia cresce esponenzialmente: lo fa Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra, per cominciare dal più famoso, ma ci sono anche Giacomo Cardaci, con La formula chimica del dolore, Melania Rizzoli, Pietro Calabrese e molti altri.

Cosa si trova dietro l’emergere di queste scritture?A chi si rivolgono, a cosa servono? 
Le autopatografie (le narrazioni della malattia vissuta in prima persona) permettono di seguire gli autori passo passo durante il cancro, dall’annuncio alle differenti fasi del trattamento, fino alla conclusione, più o meno felice, delle cure; permettono di scoprire come la malattia influenzi la narrazione, come il corpo – malato, curato, trasformato – cerchi una via di espressione. 

L’uso della metafora è, in queste opere, comune e ricorrente: una metafora mobilizzata come Lakoff la intende, non come un elemento « puramente decorativo», ma come « no strumento utile nell’impresa di rivelare la verità ».

La metafora-cliché della guerra, derivata dal linguaggio medico e politico, è cosi completata da altre metafore, scelte dalle persone malate per descrivere più accuratamente la loro esperienza, le loro sensazioni e loro frustrazioni: il cancro non è allora solo un nemico da combattere, ma è via via un ospite, un intruso, un compagno di viaggio: «Quel mio interno visitatore mi pareva fosse diventato parte di me, come le mie mani, i piedi e la testa (…) mi veniva da parlarci, da farmelo amico», osserva Terzani.

Se Susan Sontag sosteneva che la malattia non fosse «una metafora» e che «la maniera più corretta di considerarla – e la maniera più sana di essere malati – è quella più libera e aliena da pensieri metaforici», le autopatografie dei malati dimostrano il contrario: la metafora, anzi, le metafore, sono uno strumento che permette l’espressione dell’esperienza della malattia vissuta in prima persona e  di condividere la conoscenza che ne deriva, arricchendo e modificando la rappresentazione del cancro.


L'autore
Laureata in Scienze della Comunicazione a Milano, da ormai dieci anni mi sono trasferita a Parigi, dove, lo scorso aprile, ho conseguito un dotttoraro in Letteratura italiana (Università Paris Ouest – Nanterre).
Nella mia tesi di dottorato analizzo le autopatografie – le narrazioni della malattia in prima persona – delle persone malate di cancro. L’analisi di quesi scritti – in particolare delle metafore utilizzate – dimostra come le autopatografie trasmettano una conoscenza derivata dall’esperienza della malattia vissuta direttamente e propongano un nuovo linguaggio per raccontare il cancro, un linguaggio che modifica e completa quello utilizzato dai medici e dai politici.
                                                                                  
Parallelamente ai miei studi ho lavorato – e continuo a lavorare – per Cancer Contribution, un’associazione il cui scopo è proporre delle piste di miglioramento del sistema sanitario basandosi su una riflessione condivisa fra pazienti, medici, familiari, attori politici, attori dell’associazionismo e cittadini:
 



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