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Il posto della malattia

Il posto della malattia

A cura di Rossella Failla
A ogni stazione si esaminava un pezzo del mio corpo: il fegato, i reni, lo stomaco, i polmoni, il cuore. Ma l’esperto di turno non veniva a toccarmi o ad auscultarmi. La sua attenzione era rivolta esclusivamente ai pezzi e neppure ai pezzi in sé, ma alla loro rappresentazione, all’immagine che di quei vari pezzi compariva sullo schermo del computer.
Tiziano Terzani
Un altro giro di giostra

Pezzi. Organi solitari che baluginano sui supporti digitali del curante. E poi ospedali come stazioni, non–luoghi concepiti per essere attraversati da flussi di organi, piuttosto che per essere vissuti. Chiunque abbia esperito una condizione patologica, o sia stato testimone della malattia altrui, conosce l'assimilazione involontaria del malato ad una specie di “nastro trasportatore” dell'organo “guasto”. Assimilazione in qualche misura necessaria e opportuna, se si considera che ogni processo di cura esige, anzitutto, di risalire dal fenomeno della malattia alla localizzazione in cui si origina la disfunzione. Ma che la malattia abbia un locus (genico, anatomico, funzionale, o di altra natura) significa che la malattia è questo stesso locus? No, a meno di non ridurre la medicina alle scienze fisico-chimiche di cui si serve.

Una cosa sono le cause, i sintomi, le funzioni e i siti interessati dalla patologia, altra cosa è il malato. Scoprirsi malato è in primo luogo una esperienza che modifica, più o meno radicalmente, colui che la vive. Modifica la percezione del proprio corpo e l'interazione con l'ambiente (fisico, sociale e umano); costringe il malato a diventare di colpo cosciente della condizione inedita in cui versa l'organismo, a “farci caso” in modi e tempi peculiari, riducendo i suoi automatismi a vantaggio della riflessione e della progettazione. Anche l'ambiente circostante, inteso come teatro di azioni e scambi, si fa presente. Una presenza alle volte ostile, ingombrante. Per il malato, la vita comincia insomma a fare “rumore”, rompe bruscamente quel “silenzio degli organi” (René Leriche) in cui trascorre la vita della persona in salute. La malattia è il disturbo di un'armonia e, nello stesso tempo, la prescrizione che si oppone all'autodeterminazione dell'uomo e gli comanda di edificare un nuovo equilibrio o una dimensione vitale “restaurata”, in cui sentirsi nuovamente “a casa”.
Chi ha appena ricevuto una diagnosi di celiachia (intolleranza alimentare piuttosto diffusa) “avrà a che fare” in una maniera del tutto nuova e inaspettata con il proprio intestino, con il fornaio di fiducia, con le cene a casa di amici, con i ricordi d'infanzia legati al cibo, con il cibo stesso. Subentra la necessità di adottare precisi accorgimenti: “cose” che prima della diagnosi non erano oggetto di percezione consapevole perché prive di qualificazione vitale, si commutano in cose di cui è bene accorgersi, appunto. Non sarà il sistema immunitario (in cui ha origine l'alterazione che causa la malattia) a dover fare i conti con la celiachia, ma sarà il celiaco a dover fare i conti con se stesso. È facile immaginare quanto simili considerazioni valgano nel caso di malattie ben più preoccupanti e più difficilmente trattabili. É in tutto l'uomo, concepito come intero, come non diviso (“individuo”), che abita la malattia. Del resto, “è perché gli uomini si sentono malati che esiste una medicina” (Georges Canguilhem).

Si obietterà, forse, che l'attenzione alla totalità del paziente è faccenda che riguarda lo psicologo, l'antropologo, l'etologo, al più l'infermiere o l'operatore socio-sanitario; non il medico. Ora, se il compito del medico si arrestasse alla sola individuazione dell'oggetto-malattia, egli non sarebbe tenuto a includere nel proprio interesse il soggetto-malato. Ma la medicina non si esaurisce tutta nell'evento diagnostico: prosegue con il trattamento e la cura, in molti casi persegue la guarigione, appronta sistemi di prevenzione, raccomanda follow up. È possibile decidere un percorso terapeutico senza domandarsi quale sia anzitutto il vissuto del malato? La stessa diagnosi, peraltro, presuppone l'anamnesi. Banale osservare che non si ha mai a che fare con le malattie, ma sempre e solo con i malati. Non è detto che una disposizione fisiologica anomala, anormale, persino patologica, sia di per sé medicalmente significativa: nella maggioranza dei casi lo diventa in situazione, solo se costituisce una minaccia per la salute di quel paziente o se è qualificata come ostacolo, dramma, disvalore, da quel paziente. La malattia può e deve essere trattata nell'ambito della sua relazione con il malato.

Eccolo, dunque, il posto della malattia. Chi si ammala non ha la malattia, non la porta come fosse un make up particolarmente ostinato da rimuovere o un anello che non vuole più saperne di uscire dal dito. Per tutto il tempo in cui il malato è tale, egli è sempre, anche, la sua malattia. 

L'autore
A sette anni sognavo di fare l'astronauta, ma poi ho realizzato che le stelle brillano solo da lontano. Quindi ho imbracciato l'Olivetti Valentine del mio papà e mi sono messa a sferrare favolette. Oggi ho una laurea in filosofia, un grande interesse per l'antropologia medica e il pallino dei sinonimi.  

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