Gli anni più belli: la (meta)narrazione attraverso un documentario
A cura di Francesca Memini
Gli anni più belli è il titolo del nuovo documentario, realizzato con il patrocinio di SIMeN, che racconta la storia di Giacomo, un ragazzo colpito da osteosarcoma. Abbiamo chiesto a Livia Parisi, giornalista e videomaker e autrice del documentario di spiegarci come è nato questo progetto e come l'esperienza di raccontare una storia di malattia abbia influenzato il suo lavoro.
Perché hai deciso di dedicare un documentario proprio a una storia di malattia? E perché alla storia di Giacomo?
Mi interessava parlare di trasformazione, di cambiamento, e dell'importanza che la nostra soggettività ha nelll'interpretare quello che ci accade. Giacomo con la sua storia mi è sembrato la persona che meglio incarnava l'idea che la malattia possa diventare una occasione di trasformazione della propria vita. Lo ho conosciuto in occasione della presentazione del suo libro Non siamo Immuni (Intermedia edizioni) al Ministero della Salute. nel sentirlo parlare della sua esperienza, mi ha colpito la sua determinazione, la sua resilienza, la sua voglia di farcela. Credo che con queste armi anche un tumore diventa più affrontabile. La cosa interessante è che lui questo suo modo di vivere la malattia lo ha messo per iscritto, lo ha narrato in un libro in cui parla di chemio, di viaggi della speranza, di compleanni all'ospedale, di capelli che cadono, di nausee: "ogni capitolo buttavo via un peso", spiega, "e allo stesso tempo mi sono reso conto che quello che scrivevo poteva incoraggiare delle persone che stavano vivendo la malattia. Perché in questi mesi di terapie ho visto tanti ragazzi rinchiudersi in casa, non uscire, non reagire". Ecco il suo modo di affrontare il suo osteosarcoma, mi sembrava emblematico.
L'altro aspetto che mi sembrava interessante della sua storia era il fatto che, avendo lui stesso scritto un libro, mi consentiva di inserire una suggestione di metanarrazione. Io narro, con la telecamera, lui che narra la sua malattia. E' un gioco di specchi che ha al centro la parola, una parola che diventa "curativa", se utilizzata con consapevolezza. Ed è una parola detta, ma anche scritta. Motivo per il quale ho voluto riprendere Giacomo mentre legge il libo che ha scritto: per ancorare lo spettatore a quelle parole, che lo hanno aiutato a reagire al rischio di esser sopraffatto dalla paura, al dolore, dalla passività.
Secondo il tuo punto di vista, quale ruolo giocano i giornalisti nell’ambito della medicina narrativa, pur non essendo operatori della cura?
Se per medicina narrativa intendiamo lo storytelling o illness narratives, in realtà il ruolo dei giornalisti può essere importantissimo, quasi quello di traduttore e divulgatore di emozioni che per esser rese più condivisibili e leggibili da una moltitudine hanno bisogno di una scrittura che rispetti alcune caratteristiche, che il paziente non è tenuto a conoscere. A questo proposito mi piacerebbe citare una bellissima esperienza professionale con la pagina Si può vincere dell'Agenzia Ansa , un canale pensato per ospitare storie di pazienti, storie di persone che ce l'hanno fatta. In questo caso le loro preziosissime testimonianze sono raccontate, a volte in prima a volte in terza persona, attraverso la penna del giornalista, che riesce a dare loro efficacia e soprattutto brevità oggi necessarie per garantire una più ampia lettura sul web. Ma il ruolo dei giornalisti nell'ambito della medicina narrativa è importante anche nel caso in cui, con il termine di "medicina narrativa" ci riferiamo alla vera e propria "narrative medicine", ovvero il dialogo e la narrazione come strumento di cura nell'ambito della relazione con il medico. Ecco, in questo caso in Italia si è fatta molta strada grazie a realtà come la Società Italiana di Medicina Narrativa, ma molto ancora bisogna fare affinché entri nella quotidianità del curare, affinché permei la mentalità di molti medici. In questo il racconto giornalistico, l'articolo divulgativo, può avere grande utilità.
Quali sono le potenzialità del documentario, e del videomaking in generale, rispetto alle illness narratives?
Certamente lo strumento video, soprattutto in un epoca multimediale come la nostra, ha un potere di impatto emotivo molto forte. Guardare negli occhi una persona che parla del proprio tumore ha un impatto empatico che con molta maggiore difficoltà la narrazione scritta riesce ad avere. E poi, il video sazia la curiosità: permette di scoprire le incertezze dello sguardo, il tono della voce, scoprire l'orizzonte visuale e il contesto in cui la persona vive, rende tutto più vero e più vivo. Inoltre il video da questo potere comunicativo anche a chi non è particolarmente dotato per la scrittura.
Cosa hai imparato dall’esperienza del raccontare questa storia?
Ho avuto la testimonianza che, reinterpretando Franco Battiato, l'alba è già dentro l'imbrunire: ovvero che una esperienza di dolore può diventare un trampolino di lancio, un modo per scoprire più in profondità la preziosità della vita. Parlare di malattia, e di tumore in particolare, è stato poi un modo per esorcizzare la paura della malattia, porta a riflettere su come ognuno di noi si confronti con il timore di incontrarla nel corso della nostra esistenza. Chiaramente in questi mesi questo è stato un tema molto presente nei miei pensieri. Non so se riuscirei a reagire come Giacomo ma certamente questa storia incoraggia anche me. E narrarla ha avuto un effetto 'curativo', rispetto alla elaborazione della perdita improvvisa di una cara amica, colpita da tumore metastatico.
Giornalista professionista e videomaker, laureata in storia contemporanea, Livia Parisi si occupa da anni di tematiche sociali. Tra le tante esperienze giornalistiche si ricorda: W l’Italia Diretta (Rai3), Skytg24, Tg La7, Roma Uno e Il Salvagente. Attualmente lavora per l’agenzia stampa Ansa, scrivendo principalmente di salute e politiche sanitarie.
Tra i suoi reportage, ‘La miniera d’oro’ ( 2011, 15‘, trasmesso su Rainews 24) sull’attività di recupero e riutilizzo dei rifiuti da parte dei rom, e ‘Gatta Cenerentola’ (2013, 32‘, proiettato al Mat Festival di Modena), sull’attività teatrale della compagnia di pazienti e operatori del centro di Salute Mentale di Puglianello. Nel 2012, per Fondimpresa, ha realizzato ‘Storie di Formazione’, un ciclo di quattro documentari sulla formazione continua nel lavoro. Nel 2017 per Vodafone e Ansa ha girato e montato brevi video reportage su disabilità e sport per la promozione della piattaforma Ogni Sport Oltre (Oso). Diversi i video reportage girati nei Territori Palestinesi, come ‘Al Khalil’ (2012, 12’), Resistenza (2013, 8’) e La Sfida (2014, 20’), che gli hanno fatto guadagnare, nel 2015, il “Premio della Nonviolenza”.
‘Casa nostra’ (2014, 60), il suo primo lungometraggio, racconta le vicende di un gruppo di persone che occupa una scuola abbandonata per riqualificare gli spazi e assegnarli a famiglie troppo povere per permettersi un affitto. Il documentario è stato selezionato al Bari Film Festival (edizione 2014).